È il giorno di Pasqua. A casa di Ettore ed Emma Ferraro il pranzo con i figli e i nipoti è un appuntamento a cui obbligatoriamente non si può mancare. Tutto è pronto sulla tavola ma il piccolo Robel, figlio di mamma eritrea, chiede perché non si cominci con la preghiera. Allora Emma, la nonna, si alza e comincia a dire: “Caro Padre nostro, lo so che non ci parliamo spesso…”. Tutti si tengono per mano. Nessuno di loro ha mai pregato a tavola prima di quel momento. Emma ringrazia il cielo per i suoi figli, i suoi nipoti, per gli ospiti e chiede la benedizione per le mani che hanno preparato quel cibo che tra poco inizieranno a consumare. È questa una delle scene più significative della fortunata fiction di Rai Uno “Tutto può succedere”, in onda ogni lunedì sera in prima serata. I Ferraro sono una numerosa famiglia che vive nei pressi di Roma ed è composta dal capofamiglia Ettore e dalla moglie Emma, che sono un punto di riferimento per quattro figli (due fratelli e due sorelle) molto diversi tra loro, e le loro famiglie. Ispirata all’americana Parenthood, la fiction è uno spaccato di vita familiare comune, in cui tutti possono rispecchiarsi. Eppure, quante sono le famiglie che oggi pregano per il “pane quotidiano”? Non è una domanda retorica che vuole andare a parare nel “religiosamente corretto”. In “Tutto può succedere” nessuno dei componenti della famiglia è pratico di chiesa e preghiera, tranne Robel, che ha imparato a pregare a casa dei suoi nonni materni, di origine eritrea. Il messaggio è forte e assume diversi significati: il richiamo alla prima comunità cristiana, all’ecumenicità, o se volete, semplicemente alla gioia della condivisione. Ciascuna famiglia, in base alla sensibilità, può decidere se pregare prima di un pranzo sia giusto oppure no, purché questo atto non venga inteso come un semplice rito, che è e rimane un esecuzione univoca, unilaterale, indiscutibile di un atto devozionale che o si condivide o non si condivide. Lasciarsi invece sollecitare da una voce che ci parla dal di fuori del nostro recinto del “religiosamente corretto” cogliendoci di sorpresa, ci impegna a compiere un’azione che va al di là del rito. Ci pone delle domande di senso, soprattutto l’interrogativo del perché pregare, prima ancora del come. Per chi scrive, il piccolo Robel ha voluto riaffermare la spontaneità e la semplicità di una preghiera. Non è un caso che la preghiera che Gesù ci ha insegnato inizi con la parola “Padre”, che vuole dire “affetto”, “amore”, “rispetto”. Quel “Padre” posto a inizio preghiera è anche il padre di ciascuno di noi che ci ha cresciuti come figli e si è sobbarcato di ogni fatica. Forse è l’aggettivo “nostro”, prima ancora del sostantivo Padre, che ci abilita a pregare non da religiosi ma da uomini che hanno un’anima.
Domenico Strano