Nell’undicesima puntata dei nostri racconti estivi, proponiamo una storia di emigrazione e di integrazione. Buona lettura!
Robert è originario della Nigeria e si trova in Italia da dieci anni.
Quando è partito dal suo Paese, c’era un forte clima di guerra civile a causa degli scontri continui tra gruppi di musulmani e gruppi di cristiani. Allora aveva sedici anni, e durante questi scontri egli aveva visto morire i suoi genitori e quattro dei suoi sette fratelli. Robert voleva andare a scuola e fare il medico per aiutare i suoi connazionali, soprattutto i tanti bambini che vedeva soffrire e restare abbandonati per causa delle lotte intestine che si consumavano ogni giorno nella sua terra. Aggregatosi ad un gruppo di cristiani – anche lui era cristiano – che era stato cacciato via dal suo villaggio dai rivoltosi musulmani, era fuggito verso il nord del paese. Passando per il Niger e la Libia (dove la situazione era forse peggiore che in Nigeria), aveva attraversato il deserto del Sahara, con l’intento di arrivare in Tunisia. La traversata era durata un paio di mesi, tra mille stenti e mille sofferenze. Il gruppo si spostava un po’ in auto, un po’ a dorso di cavallo o di cammello, secondo le possibilità che trovava. Ma soprattutto a piedi, tra il caldo, la fame e la sete, e molti – soprattutto bambini – non avevano retto a questo regime di vita.
In Tunisia aveva conosciuto tante altre persone nelle sue stesse condizioni, che venivano da varie zone dell’Africa. Qualcuno si stava organizzando per attraversare il Mediterraneo e raggiungere l’Italia. Anche Robert, raggranellando i pochi risparmi che aveva portato con sé, decise di tentare l’impresa, con la convinzione che lasciandosi alle spalle l’Africa e tutto ciò che di brutto aveva conosciuto, in Italia avrebbe potuto rifarsi una vita e vivere in condizioni migliori.
Partirono di notte, una trentina di persone – tra cui donne e bambini – con un barcone mezzo scassato. Impiegarono due giorni per arrivare all’isola di Lampedusa, due giorni d’inferno, di notte al freddo senza possibilità di dormire, e di giorno sotto il sole che picchiava implacabile e bruciava tutto. A Robert quei due giorni sembrarono più lunghi dei due mesi della traversata del deserto del Sahara, con i bambini che piangevano in continuazione per la fame, la sete, il sonno e la stanchezza. Ad un paio di miglia da Lampedusa, vennero avvistati da una motovedetta della Guardia Costiera della Marina italiana e trainati fino alla baia dei Conigli. Da qui, dopo essere stati rifocillati e identificati, vennero portati in aereo in vari centri di accoglienza della Sicilia.
Robert andò a finire in una piccola cittadina di provincia, assieme ad altri ragazzi come lui che provenivano da varie parti dell’Africa, e alloggiato in un centro di accoglienza. Quando diventò maggiorenne, poté fare la domanda per il riconoscimento dello stato di rifugiato politico e venne inserito per un anno in un programma del Ministero dell’Interno, grazie al quale, con l’aiuto degli operatori del centro, poté ottenere nuovi documenti (i suoi li aveva persi durante la traversata del deserto) e poté fare gli esami per conseguire la Licenza Media. Nel frattempo cominciò a cercarsi un lavoro. Dapprima iniziò a lavorare con un fruttivendolo che aiutava a scaricare e ordinare la merce, ed a ripulire il negozio alla fine della giornata. Poi conobbe un commerciante del centro cittadino, che aveva un negozio di abbigliamento, il quale lo accolse nel suo magazzino con molta disponibilità.
Cominciò così a guadagnare qualcosa, per cui, finito il periodo di inserimento nel programma di accoglienza del Ministero, poté pure trovarsi un alloggio indipendente: una stanzetta a piano terra nella zona del mercato. Non era gran che, ma era meglio di niente. E poi tutto questo gli dava, soprattutto, un senso di libertà e di autonomia che non aveva mai provato, né nel suo Paese, né qui in Italia.
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Oggi Robert si è pienamente inserito nella città in cui si trova. Quando è in negozio sta sempre ben vestito con un abito scuro, la camicia bianca e la cravatta, che toglie solo d’estate. Nel negozio fa di tutto, il commesso, il magazziniere, l’addetto alle consegne, il vetrinista. Ma è sempre sorridente e gentile con tutti, sia con i colleghi di lavoro che con i clienti. Anzi, siccome conosce più lingue – l’inglese, il francese, l’arabo ed anche qualcosa di swahili – oltre naturalmente l’italiano che ha imparato a parlare fluidamente, quando c’è qualche cliente straniero, il proprietario, Salvo, chiama lui perché faccia da interprete. È diventato cioè, come dice lo stesso Salvo, una “risorsa” per il suo negozio. Inoltre con Salvo ha instaurato un rapporto che va oltre il normale rapporto che ci può essere tra il datore di lavoro ed il dipendente, perché finito il lavoro in negozio, si ritrovano insieme per andare a fare jogging, per andare a pescare, per fare una passeggiata, per fare una partitina a pallone con gli amici. Inoltre, quando Robert arriva la mattina in negozio, si informa sempre con Salvo sulla salute della sua mamma anziana che abita sopra il negozio, e gli chiede quando scenderà e la chiama anche lui mamma, come se fosse la sua vera mamma, quella mamma che egli ha perso quando era ragazzo, nel suo paese, a causa della guerra.
Si è fatto poi tanti amici, sia suoi connazionali o africani provenienti da altri stati, sia tra gli stessi clienti, che ormai lo conoscono e quando arrivano in negozio lo cercano appositamente, e quando lo incontrano per strada si soffermano a chiacchierare.
È riuscito cioè a rifarsi quella vita nuova in cui egli sperava quando è fuggito dal suo Paese, e si è fatto anche una nuova famiglia, una grande famiglia costituita da persone che lo stimano e lo apprezzano. Anche se non è diventato un medico, è comunque soddisfatto, perché è circondato da persone che lo vogliono bene, e si trova in un ambiente, in una città, che lo ha accolto bene ed in cui si è inserito come se fosse il suo luogo d’origine ed in cui si trova a suo agio. Certo, ogni tanto gli viene la nostalgia dell’Africa e della sua terra d’origine dove non può più ritornare, ma si ricorda anche delle tante sofferenze subite e delle brutte situazioni che ha conosciuto – e le cicatrici che ci sono sul suo volto color dell’ebano lo testimoniano – ma si consola subito pensando di essere stato fortunato. E gli dispiace soltanto per i suoi connazionali che ancora sono lì e continuano a soffrire.
Nino De Maria