Racconti d’estate per “La Voce”. 14^ puntata: Le case dei profughi

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La storia di oggi, quattordicesima della nostra serie estiva, mette in evidenza una situazione determinata dalla seconda guerra mondiale. Buona lettura!

baracche_1Nel decennio successivo alla fine della seconda guerra mondiale, in una zona periferica della mia città c’era un gruppo di case costruite durante la guerra per accogliere i profughi istriani, una parte dei quali arrivò anche in Sicilia. Non si trattava di vere e proprie case, erano più che altro delle baracche in legno e muratura nate come alloggi provvisori, piccolissime e forse anche prive di servizi, che col tempo erano pure ridotte in condizioni di forte degrado. Erano una decina in tutto.

Negli anni ’50, qualcuna di queste casette era ancora abitata da qualche profugo con la sua famiglia, come un signore, con un cognome tipicamente veneto, che faceva l’infermiere a domicilio. Era conosciutissimo, perché quando qualcuno aveva bisogno di iniezioni, sia intramuscolari che endovenose, o di altri servizi di tipo infermieristico, si rivolgeva esclusivamente a lui. E lui girava a piedi, col suo passo svelto, per tutta la città, preciso e puntuale come un orologio svizzero. Anch’io, da piccolo, sperimentai la sua maestria. Parlava sempre in italiano, con il suo accento del nord-est, anche se col passar del tempo aveva imparato a pronunciare qualche parola in siciliano. Portava sempre un cappello, nessuno lo aveva mai visto a capo scoperto. D’inverno teneva un “borsalino” vecchio e liso, che d’estate sostituiva con una papalina blu rotonda, perfettamente modellata sulla sua testa. Si diceva in proposito che prima di riuscire a fuggire dall’Istria, fosse stato torturato dalle truppe jugoslave di Tito, e che quindi chi sa che brutte cicatrici gli fossero rimaste – poveretto! – sulla testa. Aveva due figli: un ragazzo mio coetaneo che io conoscevo perché frequentava la mia stessa scuola e con il quale giocavo d’estate, ed una ragazza minuta e timidissima che usciva di casa solo con la madre, anche questa una donna molto schiva e riservata.

A parte qualcuna ancora abitata da profughi come il nostro infermiere, tutte le altre case erano state occupate, man mano che i profughi trovavano una sistemazione migliore e andavano via, da persone di tutti i generi arrivate anche dai centri vicini. Erano per lo più famiglie di disoccupati, di sbandati, di invalidi, di gente che una volta lavorava nelle campagne e che aveva perso il lavoro, di gente che per colpa della guerra non possedeva più niente. Erano quasi tutte famiglie numerose, per cui quando tutti i ragazzi di queste famiglie si riunivano, costituivano delle vere e proprie bande, che andavano, simili ad uno sciame di cavallette, in giro per il quartiere, entrando negli orti a rubare frutta, prendendo in giro gli altri ragazzi, infastidendo tutti quelli che non andavano loro a genio. Una ciurma di ragazzini di tutte le età e di tutte le taglie che qualcuno chiamava “affettuosamente” i “mau mau”.

In più occasioni, il Comune aveva cercato di risanare quell’area e di eliminare quelle baracche ormai fatiscenti, dando delle case popolari a quelli che ci abitavano, ma appena da una casa usciva una famiglia, immediatamente ce n’era un’altra pronta a prendere il suo posto. Per cui queste baracche non restavano mai vuote e non potevano essere abbattute senza lasciare nessuno in mezzo alla strada.

A proposito di quelli che erano già andati via e si erano sistemati nelle case popolari, correvano alcune leggende metropolitane. I nuovi alloggi ricevuti, anche se si trattava pur sempre di edilizia popolare, erano sicuramente più grandi e accoglienti delle baracche, ed erano anche dotate di servizi igienici moderni. Ebbene, i nuovi abitanti – si diceva – non abituati a certe raffinatezze o addirittura sconoscendone la natura, utilizzavano la vasca da bagno per lavarci i panni sporchi, così come si usava fare nelle vecchie “pile”, molto grandi, che c’erano una volta nei casali e nelle abitazioni di campagna; oppure, addirittura, ci mettevano a mollo lo stoccafisso ed il baccalà da spugnare. Invece il bidet correva voce che qualcuno lo usasse per tenerci le olive in salamoia. E altre amenità del genere.

* * * * *

La situazione perdurava ormai da diversi anni, ed ogni volta che il Comune faceva una nuova assegnazione di case popolari, il giorno dopo arrivavano altre famiglie ad occupare le baracche, con un ricambio continuo di cui non si riusciva a intravedere la conclusione.

Ad un certo punto, la mossa vincente del Comune fu quella di piazzare le ruspe davanti alle case, e appena una famiglia usciva, prima ancora che avesse finito di portar via le proprie cose, la sua casa veniva abbattuta. E così, finalmente, nel giro di qualche mese, si riuscì ad eliminare tutte le “case dei profughi”. Qualche anno dopo, lo spiazzo in cui c’erano quelle case venne adibito a bambinopoli.

Nino De Maria