In un tempo che non era né ieri né oggi, né la Preistoria né il Medioevo, e nemmeno il Rinascimento. In un luogo che non era né nord né sud, né oriente né occidente, ma nemmeno città o campagna…
Viveva colà un guerriero di origine vichinga. Come gli antichi vichinghi, soffriva di una malattia detta “malattia dei vichinghi”, proprio perché colpiva le popolazioni nordiche; era una malattia di origine ereditaria, ma causata anche dall’uso eccessivo di bevande alcooliche, e siccome il nostro guerriero amava alzare spesso il gomito, ecco spiegata la sua malattia. Era una patologia che col tempo gli aveva provocato la deformazione dei diti mignoli, che non poteva più tenere ben distesi e muovere liberamente; ma a poco a poco erano stati coinvolti anche gli anulari, per cui non riusciva più a suonare il pianoforte, ma non riusciva più nemmeno a grattarsi dentro i buchi delle orecchie. Ma la cosa più fastidiosa era che non riusciva più a reggere la spada e a dare delle grandi pacche sulle spalle dei suoi compagni d’arme e sulle natiche prominenti delle donzelle. Per cercare di raddrizzare e tenere a freno le sue dita piegate (e tentare di continuare ad usare le mani in maniera decente) si era fatto fare dei guanti metallici dove ingabbiava le sue mani con tutte le dita distese. La cosa gli dava alquanto fastidio e dolore, ma lui usava per questo degli antidolorifici potentissimi: acquavite, grappa e whisky a 70 gradi, che gli facevano sentire meno il dolore – sì – ma contemporaneamente lo tenevano costantemente in uno stato di esaltazione continua. E in questa condizione era capace di fare le cose più mirabolanti, tipo saltare coraggiosamente da grandi altezze, affrontare bestie feroci a mani nude, oppure – perfino – suonare ore intere il pianoforte senza sentire alcuna stanchezza, e comporre poesie raffinate con grande maestria. E sì, perché non era solo un rude guerriero spavaldo e spaccone, ma era anche una persona colta, raffinata e – quando non era in preda ai fumi dell’alcool – anche gentile d’animo e di portamento. E lui si avvaleva di queste buone qualità – cercando di nascondere quelle cattive – quando voleva fare colpo su qualche gentile donzella, al fine di ammaliarla e concupirla.
Il suo nome era Eisen Von Vikken, ma tutti lo chiamavano semplicemente Vikken, e lo si incontrava spesso nella contrada in cui aveva la sua dimora.
Nella stessa contrada abitavano pure alcune giovani e avvenenti donzelle, che ogni tanto amavano riunirsi ora nella casa d’una, ora nella casa d’un’altra, allo scopo di intrattenersi amabilmente chiacchierando ed esercitando la nobile arte del taglio e del cucito. Spesso nei loro incontri portavano a turno delle torte, dei biscotti, dei dolcetti, dei pasticcini, fatti da loro medesime con le loro abili manine e con il sudore della loro fronte. E indugiavano piacevolmente, in questi casi, ad illustrare come avessero confezionato i loro capolavori, che ingredienti avessero usato, quale procedura avessero adottato e tutti i piccoli segreti volti a raggiungere il migliore risultato possibile. I loro nomi erano: Occhiglauca, Zafarana, Cardilla, Oliveira, Paraschiva, Ippolita e Lanzaspertola.
In un tiepido pomeriggio d’autunno, le sette amiche si erano riunite nel giardino della casa di Lanzaspertola. Si erano sedute sull’erba e stavano golosamente assaggiando i dolciumi che ognuna di loro aveva portato, e nel frattempo andavano illustrando le loro prelibatezze. Zafarana, grande amante della natura e delle piante, era invece in piedi e stava raccogliendo delle bacche di kikinger, una pianta rara che produce delle piccole bacche commestibili avvolte in un guscio a forma di piccola lanterna. Solo Occhiglauca se ne stava in disparte, imbronciata, senza partecipare alla presentazione dei dolciumi. Lei aveva portato una bella torta, che però aveva messo lì in mezzo alle altre cose, senza però dire che cosa fosse, come l’avesse preparata e con quali ingredienti. Era infatti un po’ gelosa dei suoi preparati, perché era convinta che fossero migliori di quelli delle amiche e non voleva svelarne i segreti. Lanzaspertola, la padrona di casa, amava molto i dolci ed apprezzava tanto quelli che preparavano le sue amiche, ma lei non si riteneva alla loro altezza e cercava quindi di carpire i loro segreti.
Mentre le sette amiche erano in così amabile conversare, improvvisamente la loro attenzione fu attratta da urla bestiali e rumori di ferraglia. Si girarono verso il cancello d’ingresso, da dove veniva tanto schiamazzo, e videro arrivare di gran corsa Eisen Von Vikken, il quale, spalancato il cancello, entrò nel giardino protendendo il braccio sinistro coperto dal suo guanto metallico, e mentre entrava urlò a gran voce: “Todos caballeros!”
Le donzelle, terrorizzate, lasciarono quello che stavano facendo e scapparono a gambe levate verso la casa, rinserrandosi dentro. Solo Lanzaspertola rimase dov’era, anche lei impaurita, ma tuttavia bloccata dal terrore e fermamente intenzionata ad opporsi a Vikken. “Che stai blaterando, Vikken?”, urlò infatti più forte di lui. E continuò: “Nessuno ha mai detto una cosa del genere! Che cosa vuoi dunque da noi?” “Todos caballeros! Tutti cavalieri! – continuò a urlare Vikken, arrestandosi davanti a lei con fare minaccioso –. Come disse quell’imperatore che nominò cavalieri tutti gli abitanti di Alghero per la loro fedeltà e per la sottomissione che gli prestarono! Anche voi, se vi sottometterete a me, vi nominerò tutte cavalieri e cavallerizze e potrete seguirmi nelle mie imprese. Avrete così l’onore ed il privilegio di partecipare alla mia gloria e di dormire nella mia stessa tenda!” Vikken era visibilmente alterato e chiaramente in preda ad una solenne ubriacatura, frutto di una abbondante abbeveratura a base dei liquori più forti che aveva potuto trovare nelle taverne della zona.
E mentre continuava ad avanzare minacciosamente verso Lanzaspertola con le due braccia ferrate in avanti, questa le urlò in faccia: “Tu sei pazzo! Pazzo e ubriaco! E nessuno vuole qui diventare cavaliere e sottomettersi alle tue folli bramosie!” Ma per fortuna in quel momento le sue amiche, che senza farsi notare erano uscite dalla casa e avevano fatto il giro del giardino arrivando alle spalle di Vikken armate di spiedi, scope, bastoni, padelle, e di tutte le armi improprie che erano riuscite a trovare in casa, lo assaltarono tutte insieme e lo tramortirono con un solenne colpo in testa di mattarello, sferratogli a quattro mani, con tutta la forza possibile, da Zafarana e da Oliveira. Vikken, già instabile sulle gambe per gli effetti della sbornia, crollò di colpo a terra tramortito, mentre le altre amiche lo tartassavano a colpi di padella, scopa e bastone. Il colpo di grazia glielo assestò Occhiglauca che gli spiaccicò sul muso la sua torta. Vikken cadde a quel punto in un sonno profondo, russando come il motore di un vecchio trattore.
Neutralizzato per il momento Vikken, le sette amiche si guardarono in faccia chiedendosi con gli occhi, silenziosamente, che cosa potessero fare adesso per sbarazzarsi di Vikken. “Ci penso io”, disse la padrona di casa Lanzaspertola. E andò a prendere, dal ripostiglio degli attrezzi da giardino, una carriola che usava abitualmente per portare i vasi, le piante, le erbacce e tutto ciò che occorreva spostare. La affiancò a Vikken che dormiva beatamente e rumorosamente disteso sul vialetto del giardino e, aiutata dalle amiche, lo tirò su e lo adagiò dentro la carriola, con i piedi penzolanti all’esterno. Vikken ebbe a questo punto come un sussulto e, continuando a tenere gli occhi chiusi, disse sottovoce:
“Vivamus mea Lesbia, atque amemus!”
E poi, aprendo mezzo occhio, continuò, scandendo le parole e facendo lunghe pause tra una frase e l’altra:
“Da mi basia mille…
deinde centum…
dein mille altera…
dein secunda centum…
deinde usque altera mille…
deinde centum!”
Dopo di che riprese a russare sonoramente. Le sette donzelle si guardarono in faccia e quindi, con molta cautela, sollevarono da terra la carriola e si incamminarono piano verso il cancelletto d’uscita. “Dove lo portiamo?”, chiese Occhiglauca. “Il più lontano possibile da qui!” “Io – intervenne Paraschiva – proporrei di portarlo nel boschetto qui vicino, dove sicuramente potranno ritrovarlo i suoi compagni e riportarlo a casa sua.” Le altre si guardarono negli occhi facendo dei cenni d’assenso. E così, portando la carriola a turno, si avviarono verso il bosco. Vikken, come abbiamo detto, era – nonostante tutto – una persona di cultura, ed anche in questa occasione lo stava dimostrando, facendo addirittura delle citazioni di versi latini di Catullo. Ma non era finita lì, perché al primo sobbalzo, tra un ronfo e l’altro, gli uscirono dalla bocca queste parole:
“Sempre caro mi fu quell’ermo colle…”
“Leopardi?”, azzardò Lanzaspertola guardando Cardilla. “No – rispose questa – c’è qualcosa che non va.”
“Fonte d’un desiderio folle…”, riprese Vikken al successivo scossone.
E poi, di botta in botta, e alzando alternativamente le braccia ingabbiate:
“E ’l monte, da Venere nomato ascendere…
D’onde di poi nelle latebre scendere…
E col duro piccon cozzare…
E la volta di lei sfondare…
Li sensi miei laggiù allietare…
Con assiduo moto pendolare.”
A questo punto, Vikken sembrava essersi addormentato definitivamente, perché riprese a russare ancor più rumorosamente. Ma dopo un po’ si scosse nuovamente e riprese:
“Ah, com’è dolce affogare…
In questo mare!”
Vikken aveva recitato – dormendo dormendo e brancolando tra le nebbie dell’ubriacatura – un’intera poesia che assomigliava all’“Infinito” di Leopardi, ma non era quella; si trattava probabilmente di qualche parodia da lui stesso composta.
Quando stavano per arrivare nel boschetto, improvvisamente Vikken aprì un occhio e sollevò la testa come se stesse per svegliarsi. Le sette donzelle, impaurite, posarono a terra la carriola e andarono di corsa a nascondersi tra gli alberi, mentre Vikken riprendeva a parlare:
“Passer mortuus est meae puellae!”
Ancora Catullo!
Quando si riaddormentò riprendendo a russare, le donzelle si riavvicinarono piano piano, ripresero in mano la carriola e si addentrarono nel bosco. Scelsero un posto non troppo nascosto, ma vicino al sentiero principale, fecero una specie di giaciglio di foglie, e quindi presero tutte insieme con molta delicatezza il bello addormentato e ve lo posero sopra dolcemente. Dopo di che, cercando di fare quanto meno rumore possibile, si allontanarono pian piano. Ma prima di abbandonare il povero Vikken nel bosco, gli lasciarono alcuni generi di conforto per quando si sarebbe risvegliato: Ippolita gli pose accanto un vassoio di biscotti, mentre Occhiglauca, che aveva portato una bottiglia di acquavite, gliela mise tra le gambe, in modo che egli potesse notarla subito al suo risveglio. Inoltre lo avevano lasciato in un posto abbastanza in vista, di modo che, anche se il suo sonno fosse durato ancora molto, i suoi compagni potessero ritrovarlo facilmente. E non era infatti la prima volta che Vikken, ubriaco fradicio, si addentrasse nel bosco crollando a terra addormentato, e qui venisse poi ritrovato dai suoi compagni, tra i quali c’era, in primis, tale Brunello Bellachioma, suo compare di sbornie (ma di lui parleremo, forse, un’altra volta).
Mentre le sette donzelle si allontanavano con la carriola vuota cercando di non fare rumore, sentirono ancora una volta Vikken che con la voce impastata diceva qualcosa, un’altra citazione, come se stesse seguendo il filo logico di un suo discorso mentale:
“Pànta rèi, ohimé!”
Stavolta aveva proprio chiuso in bellezza, citando addirittura il filosofo Eraclito in greco!
***