Secondo stime dell’Onu circa il 30% dei 42mila foreign fighters partiti per la Siria e l’Iraq da più di 120 nazioni sarebbe già ritornato. In Europa sarebbero circa 1.500 i mujahidin rientrati rispetto ai circa 5.000 partiti. In Italia, i foreign terrorist fighters partiti sarebbero 125; di questi, solo 10 sono rientrati nel nostro Paese. È quanto emerge da un dossier dell’Ispi dedicato ai foreign fighters di ritorno. Numeri che in Italia permettono di lavorare bene ma attenzione alle generalizzazioni e agli stereotipi xenofobi o populisti: possono supportare – dicono gli esperti – la narrativa jihadista di reclutamento.
L’Europa, i foreign fighters e il problema della “gestione dei reduci”. Secondo stime dell’Onu circa il 30% dei 42mila foreign fighters partiti per la Siria e l’Iraq da più di 120 nazioni sarebbe già ritornato, creando forti allarmi per il timore di attentati. In Europa sarebbero circa 1.500 i mujahidin rientrati rispetto ai circa 5.000 partiti. È quanto si legge nel dossier curato dall’Ispi (Istituto per gli studi internazionali) e dedicato al “Terrorismo in Europa: foreign fighters e prevenzione”. Nel contributo a firma di Alessandro Boncio, ispettore dell’arma dei carabinieri e docente presso l’Istituto superiore di tecniche investigative dell’Arma, nel solo Regno Unito sarebbero circa 400 i foreign fighters rientrati in patria, mentre in Germania il numero censito è di 274 reduci.
Secondo il direttore del Dgsi francese, il numero di returnees sul territorio francese è stimabile tra i 400 e i 500, mentre le autorità belghe valutano in 121 il numero dei combattenti rientrati. In Svezia sono circa 140 i foreign fighters che hanno fatto ritorno. Si tratta di cifre di cui anche l’Italia dovrà tenere conto, unitamente al gruppo di returnees tunisini e provenienti dai Balcani (rispettivamente 800 e 300 individui).
Il grado di pericolosità dei reduci. Il Dossier Ispi sottolinea come l’alto livello della minaccia rappresentata dai reduci è dovuto all’addestramento e all’esperienza di combattimento oltre che ai collegamenti con la rete terroristica internazionale. La desensibilizzazione all’uso della violenza, combinata con il disturbo post traumatico da stress (Ptsd) che di solito accompagna le esperienze di combattimento, innalzano il livello di rischio rappresentato dai reduci. Nella relazione curata da Alessandro Boncio, i reduci del jihad vengono divisi in quattro macro categorie: “I disillusi e traumatizzati” che hanno lasciato volontariamente i territori controllati da Daesh; i reduci “costretti” a rientrare a causa di malattie, ferite o altro, pertanto, “soggetti che potrebbero ripartire” o “diventare dei reclutatori in patria”; i combattenti catturati o comunque rimpatriati contro la loro volontà e, infine, il gruppo più pericoloso, quello composto da
“agenti operativi” in cellule e strutture dormienti in Europa o in altre nazioni al fine di compiere attacchi e spostare ulteriormente il focus mediatico dai teatri mediorientali al mondo occidentale.
I foreign fighters italiani. Secondo le ultime stime ufficiali, i foreign terrorist fighters (Ftf) partiti dal nostro Paese sarebbero 125; di costoro, 37 sarebbero deceduti in Sira e Iraq, mentre altri 22 hanno fatto ritorno in Europa. Di questi ultimi, infine, 10 sono rientrati in Italia. Nel dossier Boncio raccoglie le storie di alcuni reduci.
Qualcuno è già rientrato ed è sottoposto a trattamenti in cliniche per disagi mentali,
come nel caso di Giampiero Filangieri e di Dannoune el Mehdi, marocchino naturalizzato italiano: in entrambi i casi alla base della decisione di unirsi al conflitto in Siraq ci sarebbero disagi psichici e non il convincimento ideologico o religioso solitamente associato ai Ftf. C’è poi la storia del siciliano Gianluca Tomaselli, trasferitosi in Inghilterra e convertitosi alla religione islamica. Sposato e padre di due bambini, si era rapidamente radicalizzato e nel 2013 si era recato in Siria. C’è chi dopo un passato di alcol e spaccio, si è radicalizzato nel carcere di San Vittore a Milano e, infine, vi sono i mujahidin partiti dall’Italia per la Siria o l’Iraq e non ancora rientrati.
Le “rotte” del rientro. I reduci hanno a disposizione diversi metodi per il ritorno in patria a seconda delle condizioni in cui si trovano; possono chiedere aiuto al loro consolato, specialmente se hanno necessità di nuovi documenti, assistenza per figli minori, o se devono essere ricoverati in strutture sanitarie. Alcuni ri-utilizzano gli stessi facilitatori assoldati sul confine turco/siriano che li avevano fatti entrare in Siria e Iraq. Altri, infine, tentano il viaggio con documenti falsi verso Paesi europei terzi. Quest’ultima eventualità, già abbondantemente documentata – si legge nel dossier – “rende necessario un ulteriore sforzo di cooperazione internazionale di polizia”.
Conclusioni. “Il fenomeno del reducismo jihadista italiano, come pure quello dei foreign fighters partiti dal nostro Paese per Siria e Iraq – scrive Boncio al termine del suo studio – non ha raggiunto le allarmanti dimensioni di altri Paesi europei, ma la minaccia alla sicurezza nazionale deve essere affrontata per tempo, disinnescando le propensioni all’estremismo di alcuni individui, prima che anche nel nostro paese il fenomeno assuma dimensioni più preoccupanti”. L’Italia quindi, ha ancora la possibilità di mettere in pratica le migliori esperienze di prevenzione e deradicalizzazione attuate in Europa, adattandole al contesto nazionale. I numeri permettono ancora di “lavorare con serenità”, scrive Boncio, affiancando un programma di deradicalizzazione strutturato a un’attenta e delicata opera di monitoraggio e di mediazione. E conclude: “Vanno soprattutto evitate le generalizzazioni, gli stereotipi e le decisioni repentine in situazioni di emergenza, che rischiano di favorire, invece che prevenire, la radicalizzazione jihadista violenta. Anche il dibattito sui migranti e il relativo rischio di infiltrazioni terroristiche devono prescindere da manifestazioni xenofobe o populiste, per evitare di supportare la narrativa jihadista di reclutamento”.
M. Chiara Biagioni