Recensione / I “Cenni biografici di Mons. G.B. Arista” di Pietro Pappalardo, agiografia e storia delle famiglie acesi

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Venerdì 2 marzo alle ore 18,30, presso l’Oratorio dei Padri Filippini di Acireale, il Vescovo di Ivrea mons. Aldo Edoardo Cerrato e il prof. Giovanni Salmeri dell’Università di Siena, presenteranno i Cenni biografici di Mons. G.B. Arista, secondo Vescovo di Acireale (Edizioni Oratoriane Acireale). Il libro, singolare per la sua struttura ed impostazione, è stato scritto da Pietro Pappalardo (1886-1950), assai vicino all’Arista essendone il maggiordomo. Abbiamo chiesto al prof. Alfonso Sciacca, che ne ha curato le note e la introduzione generale, di scrivere la seguente recensione.

Pur essendo una monografia che narra le virtù eroiche di Giambattista Arista, secondo Vescovo di Acireale, questo libro presenta al suo interno una straordinaria coralità di voci, di personaggi e, perfino, di emozioni. Ed infatti questa narrazione, in quanto microstoria, presenta un mondo variegato di emozioni legate ai piccoli e grandi fatti della storia di una cittadina, come Acireale, tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento. C’è la storia di una Congregazione, quella dei Padri dell’Oratorio, che è contessuta con quella di Acireale. E ci sono personaggi in questa Congregazione, dal primo Ottocento fino ad oggi, che pur nell’apparente riservatezza della loro esistenza, si sono aperti alle vicissitudini del mondo. La «microstoria» regala al lettore ciò che egli spesso non si aspetta: il dono di questi piccoli e grandi squarci di vita nascosta e riservata che sono, invece, metafora poetica ed eloquente delle grandi cose. La luce della scrittura li illumina dall’interno e li fa splendere in tutto il loro ingenuo candore.

Importante è il punto di vista del narratore, Pietro Pappalardo che, vivendo accanto al suo Vescovo, è in grado di registrare anche gli aspetti più inesplorati e più genuini della sua personalità. Pappalardo, che è stato il cameriere privato del Vescovo Arista, il suo maggiordomo (che potrebbe essere una definizione esagerata per un Vescovo che amava la vita austera e riservata), lo vede da vicino. Gli sta sempre dappresso. Conosce le sue ansie. Le sue certezze, ma anche i suoi dubbi e le sue angoscianti perplessità. Lo vede pregare e dialogare con Dio. Talvolta la preghiera si fa pressante, insistente, assidua. Come se l’Arista volesse strappare all’Eterno un segno della sua misericordia e della sua bontà. La parola del Vescovo è dolce e suadente. Ma è solo un dettaglio di tutto il suo modo di essere e di esprimersi. Ci sono le mani del Vescovo, il modo del loro atteggiarsi, a corollario delle parole, gli occhi e lo sguardo penetrante e suadente. C’è il rigore della vita, il senso dell’obbedienza, il rispetto dell’altro. E poi, ancora, tante parole astratte, come carità, pietà, amore, zelo, semplicità di vita, che diventano concreti esempi nei fatti narrati e nelle opere di bene. Senza saperlo, Pappalardo, che professa sempre la sua inadeguatezza di scrittore, sa cogliere la fenomenologia dell’essenza cristiana. La fenomenologia dell’amore, ad esempio, e della santità. Ed è proprio questo particolare che rende assai interessante un libro che è stato scritto quasi per caso, ma con un diuturno accanimento che è durato circa trent’anni.

Arista non ne è il solo protagonista. Il protagonista è anche il narratore. Che è anche un “antagonista”. Un «altro» rispetto al Vescovo. Uno che gli è diverso, nella sua assoluta normalità. L’essere di Arista e l’essere diverso dello scrittore si combinano insieme in una sintesi (quasi ossimorica) che in definitiva si risolve in quel racconto non raccontato, in quel succo del racconto, in quella conclusione che sta fuori del libro, ma dentro la mente del lettore. C’è, inoltre, una folla di personaggi, noti e meno noti, puntualmente registrati nell’indice analitico, come a dimostrare che il Vescovo e la sua città formano un binomio inscindibile.
Il rapporto tra Arista e la sua città non è stato un rapporto facile. I santi sono scomodi, anche se predicano la pace. O forse perché predicano la pace. Acireale è stata, e forse continua ad esserlo, una città difficile. Per tanti motivi: vuole avere il respiro di una grande città, ma poi ama crogiolarsi nella mediocrità degli interessi personali e delle invidiuzze di una borgata di periferia. È stato difficile per Arista (la madre era una Vigo, la quintessenza della realtà acese, ed il padre un palermitano) accogliere l’eredità del primo vescovo Genuardi. Un vescovo severo, una sorta di despota. Il fondatore, «l’ecista» direbbero gli antichi Greci: il Pericle acese che fonda il seminario, arricchendo la città di conventi e monasteri. La sua prosa è austera, irrompe come un fiume in piena, ed è difficile contrastarla. Arista non è un fiume. È un ruscello, come il fiume Aci che scorre sotterraneo e sfocia nello Jonio, che mai s’increspa e travolge. La sua acqua è limpida. La sua prosa è come quest’acqua.
Inoltre iniziavano i primi ardori del materialismo ateo e le piazze, come quelle di Catania, si riempivano spesso di giovani che osannavano Giordano Bruno. Il libro regista tutto ciò. E perfino l’anno terribile, quel 1913, l’anno del non expedit, che fu l’anno più difficile politicamente parlando, della vita politica acese. Questo libro accenna anche alla storia delle famiglie acesi. Senza saperlo Pappalardo ha colto il cuore della storiografia moderna: la storia delle città siciliane, come Acireale, deve essere scritta a partire dalla storia delle sue famiglie. Un primo segnale che potrebbe essere un auspicio per gli storici di oggi e di domani.

A dispetto del più di mezzo secolo dalla sua stesura, il libro, che nelle intenzioni dell’autore è sostanzialmente un’agiografia, rompe di fatto gli schemi tradizionali di questo genere letterario perché la «memoria» del «santo» si fa stringente attualità. La santità di Arista è il suo eroismo speso nella quotidianità della vita e nella sua normalità. La sua santità «senza tempo» è intessuta nella dimensione del quotidiano e, per tutto ciò, ci coinvolge. Le note al testo si propongono il fine di illuminarne le strutture linguistiche e narrative e di correlarlo alle altre fonti dell’epoca (soprattutto il periodico «Il Zelatore cattolico», ma anche altri giornali di quegli anni assai vivaci per cultura giornalistica) e, di conseguenza, di allargarne la prospettiva storica.

Alfonso Sciacca

 

 

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