Remake 8 / Jobs act: la riforma del lavoro, definita storica dal governo, in attesa dello sprint occupazionale

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I numeri non dicono ancora che lo strumento funziona perfettamente, ma i rapporti a tempo indeterminato attivati con la decontribuzione potrebbero raggiungere 1,3 milioni entro fine anno. Il mondo imprenditoriale fa ancora fatica a investire, ma col tempo la flessibilità introdotta nelle relazioni industriali dovrebbe portare i suoi frutti

“Jobs Act” all’ultimo giro di boa la prima settimana di agosto, e poi? La domanda è d’obbligo, dopo che le jobsactpCommissioni Lavoro di Camera e Senato, nei primi giorni del mese estivo per eccellenza (il 4 e 5 agosto), hanno approvato i restanti quattro decreti legislativi (dlgs), consegnando quella che il governo ha sempre definito “riforma storica” del mercato del lavoro alla prova concreta del tempo. E sì, perché la situazione economica e lavorativa italiana è talmente compromessa, che anche una legge aperturista quale quella del Jobs Act sta facendo fatica a esplicare le sue potenzialità di acceleratore occupazionale. La curiosità del nome stesso scelto – “Jobs Act” – la dice lunga sul destino di questa riforma. Nell’originale versione americana, la sigla è acronimo delle parole “Jumpstart Our Business Startups Act”, legge voluta da Obama nel 2012 per incoraggiare il lancio di “small business” tramite facilitazioni di varia natura, burocratica, fiscale, lavorativa, ecc. Niente a che fare con l’accezione che ha assunto da noi, falsata dall’assonanza “jobs” che significa “lavori”. I due contesti risentono il primo della prevalenza liberista americana, che insiste sulle imprese, e il secondo (italiano) dell’altrettanto prevalente visione della sinistra nostrana che invece insiste sul lavoro e i lavoratori. Ne è venuta una sorta di concezione ibrida, criticata più dall’estrema sinistra (Sel e ala radicale del Pd) che accusa il “Jobs Act” di essere troppo liberista perché ha soppresso l’art. 18, e plaudita invece dalla Confindustria e dal mondo delle piccole imprese (Confapi e Confartigianato), che vi ravvisano finalmente uno sblocco dell’ingessato mercato del lavoro italiano, dove era più facile chiudere una fabbrica che licenziare un dipendente.
Dal 7 marzo scorso, quando è stata varata con il primo dlgs sul contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, le attese per questa novità sono state tante. Come pure le contestazioni e le opposizioni. Da qui a pochi mesi comunque dovrebbero prendere il via gli ultimi strumenti di sostegno del “Jobs Act”, vale a dire la “Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro”, che andrà definitivamente a sostituire i vecchi uffici di collocamento. Verranno poi riordinati gli ammortizzatori sociali (la vecchia cassa integrazione e le indennità di disoccupazione) sostituite dalla Naspi, sigla che sta per “nuova prestazione di assicurazione sociale per l’impiego”. Stanno nel frattempo andando a regime i decreti per il riordino dei contratti più disparati (dai cococo ai cocopro alle altre forme cosiddette “atipiche”). Altre novità riguardano i cambiamenti nella disciplina contrattuale sulle mansioni svolte dai lavoratori, la “conciliazione” tra vita e lavoro molto attesa e utile per le famiglie che debbono gestire uno o più figli piccoli. Insomma, il “Jobs Act” è partito ma è come fosse ancora poco sopra la rampa di lancio, perché si è messo in moto di fatto principalmente con il primo stadio (come dicono dei razzi spaziali), quello dell’assunzione sostenuta dagli sgravi contributivi. Gli stadi successivi sono pronti, alcuni sono già a motori accesi, ma per decollare stabilmente hanno ancora bisogno di tempo. E di entrare nel comune sentire, anche degli imprenditori.
Nel maggio scorso, ad esempio, sono stati 184.707 i contratti di lavoro in più, ma si è trattato di quasi tutti contratti a termine, perché i nuovi contratti a tempo indeterminato sono stati 179mila e altrettante le cessazioni. Il saldo vero, di “nuovi” contratti a tempo indeterminato è stato di 271 unità. Poche davvero. Più incoraggiante il saldo sui cinque mesi: secondo l’Inps le assunzioni nel 2015 sono cresciute di 152.722 unità, contro i 51.270 contratti a termine. Viene il dubbio che le aziende stiano quasi facendo una rotazione: licenziano, quando possono, i “vecchi” contratti a tempo indeterminato e poi riassumono gli stessi lavoratori o nuovi con il “Jobs Act” che offre loro più chance di licenziare liberamente entro i primi tre anni, per giunta con abbattimenti contributivi. Proverebbero questi sospetti i dati diffusi dall’Istat su giugno, da cui risulta che i disoccupati in Italia in realtà sono di nuovo aumentati (+55mila), a dispetto della nuova legge, mentre diminuiscono pure gli occupati (-22mila) il che significa che la ripresa non è poi così florida se le aziende hanno ancora bisogno di licenziare. Non parliamo della disoccupazione giovanile (44,2%) e di quella generale (12,7%) anch’esse aumentate invece che diminuire. E non parliamo del Mezzogiorno sul quale il Rapporto Svimez diffuso a fine luglio getta un’ombra molto preoccupante di rischio di “sottosviluppo permanente”.
Un dato certo è che i rapporti a tempo indeterminato attivati con la decontribuzione potrebbero raggiungere 1,3 milioni entro fine anno. Un buon numero. Al momento i casi registrati sono soltanto il 21,9% del totale, e in larga misura si tratta di posti sostitutivi di precedenti contratti in essere. Lo Stato spenderà per questo intervento 1,9 miliardi e dobbiamo chiederci: perché le aziende, nonostante questo forte aiuto, non assumono? Nel gergo si dice che “portato al pozzo, il cavallo non vuole bere”, cioè pur avendo consistenti vantaggi gli imprenditori sono riluttanti ad assumere perché il mercato è quello che è. Inoltre c’è chi contesta il fatto che il “Jobs Act” valga solo per i dipendenti privati e non per gli statali. Quindi, per concludere, da un lato il “Jobs Act” ha portato la novità di un mercato del lavoro più flessibile, ma dall’altro viene contestato perché tiene bassi i salari e non fa (ancora) crescere l’occupazione. Unico dato positivo certo è che i lavoratori in cassa integrazione sono diminuiti quest’anno di 111mila unità, cioè sono tornati al lavoro. E questa è una vera buona notizia.

Luigi Crimella

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