Reportage Firenze 2015 / Sarà una Chiesa a “cinque corsie”. Umiltà, disinteresse e beatitudine per sporcarsi e uscire

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Un convegno probabilmente indimenticabile, purché non rimanga appannaggio di pochi “intimi”. Questa la speranza per lo più emergente alla fine dei lavori del V Convegno ecclesiale nazionale, svoltosi a Firenze dal 9 al 13 novembre a partire dal tema “In Gesù Cristo il nuovo umanesimo”. 2145 i delegati, provenienti da 118 diocesi, associazioni, movimenti, ove i laici hanno costituito oltre il 50 per cento dei partecipanti, tra i quali il primato per fasce d’età spettava ai compresi fra i 36 e i 59 anni, seguiti da quanti rientrano fra i 60 e i 74 anni. In terza fascia i più giovani, fra i 18 e i 35 anni.

Si riuscirà, ripartendo dal convegno, a passare da «un’epoca di cambiamenti a un cambiamento d’epoca», SDP_8834-980x653come recitava un passaggio dell’intervento tenuto da Papa Francesco, Martedì 10 nella stupenda cattedrale di Santa Maria del Fiore. Un intervento di importanza probabilmente cruciale nella storia moderna della Chiesa, stando anche alle parole che il cardinale Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia e vice presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ha pronunciato in merito: “il Papa ha fatto una enciclica per la Chiesa italiana e ha rimesso insieme tante cose che ci aveva detto a spezzoni. Adesso noi, senza scuse, abbiamo un’ agenda precisa, perché è partito con una visione subito molto chiara: Ecce Homo, l’umanesimo che rifiuta la spada e che è il Cristo Salvatore”.

Eppure, prima di uno storico intervento capace di strappare 19 applausi in 50 minuti, Papa Francesco aveva assolutamente preteso di iniziare da Prato la sua giornata di contributo al convegno della Chiesa italiana. Quando l’elicottero papale atterra allo stadio Lungobisenzio di Prato alle 7.55, la città è blindata come raramente ricorda nella storia. Fin dall’alba, ma in qualche caso anche dalla sera precedente, attenzioni e speranze di operatori e fedeli si sono incrociate elettrizzando l’attesa: l’evento è indimenticabile per questa smisurata “periferia fiorentina”, come il resto della Toscana battezza il territorio pratese spesso e volentieri. «Città ricca di storia e di bellezza, che lungo i secoli ha meritato la definizione di “città di Maria”, come esordirà lo stesso Francesco, che si definirà «pellegrino di passaggio».

La piazza del duomo, che lo accoglie festante al suo affacciarsi dal pulpito della facciata, è gremita: conta circa 30 mila persone, senza contare i cittadini appostati sui percorsi previsti per portare il papa dallo stadio. Del resto, per vederlo da vicino alcuni hanno passato la notte in piazza, muniti di sacco a pelo e seggiolina pieghevole, pronti fin dalla mezzanotte. Badanti, operai, studenti, cuochi, addetti alle pulizie, camerieri, e molti, molti immigrati. Perché quella voluta dal papa a tutti i costi, anche solo per un’ora, è la visita ad una città che dai decenni d’oro fondati sull’eccellenza del tessile esportato nel mondo si ritrova ad affrontare un profondo cambiamento demografico, sociale ed economico, con evidenti segni di crisi e disagio su più fronti. Cresciuto a dismisura anche sul piano urbanistico in pochi anni, in maniera per lo più scriteriata, il distretto della provincia pratese conta oggi circa 250 mila abitanti e la quota di prima o seconda generazione immigrata rappresenta un quinto della popolazione, attribuendo alla città la maggiore percentuale di immigrati in Italia.

Occhi a mandorla soprattutto, trecce coloratissime su carnagione nera, volti dell’est: tutti insieme per ascoltare il Papa venuto dai confini del mondo. Non sono andati a lavoro, felici come quei giovani di parrocchie e gruppi scout che nella chiesa di San Francesco sono stati raccolti in mille da tutta la città, tra canti, preghiere, materassini in attesa della sveglia delle cinque, per poi armarsi di cornetti e caffè e dirigersi in Piazza delle carceri. E Francesco non delude, senza risparmiare affondi precisi sul piano sociale, che la città sente particolarmente impellenti: «Mi permetto qui di ricordare i cinque uomini e due donne di cittadinanza cinese morti due anni fa a causa di un incendio nella zona industriale di Prato, vivevano e dormivano all’interno dello stesso capannone in cui lavoravano: in una zona era stato ricavato un piccolo dormitorio di cartone e cartongesso, è una tragedia dello sfruttamento e delle condizioni disumane di vita e questo non è lavoro degno»,ricorda citando la strage al Macrolotto dell’1 Dicembre 2013.

«La vita di ogni comunità esige che si combattano fino in fondo il cancro della corruzione e il veleno dell’illegalità. Dentro di noi e insieme agli altri, non stanchiamoci mai di lottare per la verità!», incalza il papa, in una città che per anni ha creduto, in molteplici dei suoi protagonisti istituzionali e imprenditoriale, di potere asservire a proprio vantaggio la manodopera a basso costo di tanti immigrati arrivati, soprattutto cinesi, rimpiangendone ora amaramente la fisiologica emancipazione, capace di comprare intere aree urbane ed economiche svuotando dell’identità storica buona parte del circondario.

Eppure «ci è chiesto di uscire per avvicinarci agli uomini e alle donne del nostro tempo. Uscire, certo, vuol dire rischiare, ma non c’è fede senza rischio», sottolinea papa Bergoglio. «Si preferisce – ha osservato – il rifugio di qualche porto sicuro e si rinuncia a prendere il largo sulla parola di Gesù». «Ricercare e scegliere sempre la verità non è facile; è però una decisione vitale, che deve segnare profondamente l’esistenza di ciascuno e anche della società, perché sia più giusta e onesta. La sacralità di ogni essere umano – conclude il papa – richiede per ognuno rispetto, accoglienza e un lavoro degno; la vita di ogni comunità esige che si combattano fino in fondo il cancro della corruzione e il veleno dell’illegalità. Dentro di noi e insieme agli altri, non stanchiamoci mai di lottare per la verità! Incoraggio tutti, soprattutto voi giovani, a non cedere mai al pessimismo e alla rassegnazione».

Prato ha ascoltato parole di speranza, ma Francesco è stato chiamato subito a Firenze, dove uno dei discorsi più significativi del suo pontificato scuote fin dalle fondamenta la Chiesa italiana: le “cinque parole chiave” del convegno, uscire, annunciare, abitare, educare, trasfigurare, vengono poderosamente caricate di una missione radicale e pressante. Un discorso semplice nei termini, come al solito, ma clamorosamente denso e (insolitamente) lungo. Bergoglio parte dallo sguardo alla meravigliosa cupola di Brunelleschi e all’iscrizione del gigantesco affresco “Ecce Homo”: «il volto di Gesù morto e risorto ricompone la nostra umanità”, anche quella “frammentata per le fatiche della vita, o segnata dal peccato”. «Non dobbiamo addomesticare la potenza di quel volto. Facciamoci inquietare sempre dalla sua domanda: ‘Voi, chi dite che io sia?’” cita e chiede il Papa.

Tre i sentimenti di Gesù che il Papa indica quali tratti dell’umanesimo cristiano: umiltà, disinteresse, beatitudine. «La nostra fede è rivoluzionaria per un impulso che viene dallo Spirito Santo. Dobbiamo seguire questo impulso per uscire da noi stessi». Una Chiesa così «sa riconoscere l’azione del Signore nel mondo, nella cultura, nella vita quotidiana della gente. L’ho detto più volte e lo ripeto ancora oggi a voi: “Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti”.

Due le tentazioni da cui il Papa invita a guardarsi: “sappiamo che sono tante…, ve ne presento due”. Quella pelagiana, che si arrocca nelle strutture, nella pianificazione, nel controllo, nella normatività, nonostante “la dottrina cristiana non sia un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare… ha carne tenera: si chiama Gesù Cristo” per una “riforma della Chiesa che non si esaurisce nell’ennesimo piano per cambiare le strutture ma si lascia condurre dallo Spirito”. Quindi il richiamo allo spirito di Peppone e don Camillo, personaggi di Guareschi emblematici per «vicinanza alla gente e preghiera», chiavi per vivere un umanesimo cristiano «popolare, umile, generoso, lieto” e quello ai vescovi: “Siate pastori con l’odore delle pecore, nulla di più: sia questa la vostra gioia” proprio come quel vescovo, racconta il Papa forse facendo riferimento alla propria passata esperienza a Buenos Aires, che in metrò all’ora di punta, non sapendo dove appigliarsi per reggersi, spinto a destra e a sinistra, si appoggiava alle persone per non cadere. «Così ha pensato che, oltre la preghiera, quello che fa stare in piedi un vescovo, è la sua gente» afferma scatenando un boato nel duomo di Firenze gremito.

Ancora pressante la raccomandazione per l’inclusione sociale dei poveri e a riconoscere tutti “i figli abbandonati, oppressi, affaticati», e quella ai giovani, “costruttori dell’Italia”, invitati a. “non guardare dal balcone la vita, ma ad impegnarsi e immergersi nell’ampio dialogo sociale e politico”. “Dovunque voi siate – incalza Francesco – non costruite mai muri né frontiere, ma piazze e ospedali da campo. Mi piace una Chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. Desidero una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza. Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa, innovate con libertà».

«Il Papa deve lottare e andare avanti: bisogna vada dritto come ha detto oggi con quella questione dei documenti vaticani…» si affrettano a dire di fronte al taccuino del cronista due donne del coro che accoglie i delegati. Il convegno procede poi alla Fortezza da Basso, tra laboratori e incontri con la città attraverso 30 luoghi, relazioni di illustri docenti e sintesi puntualmente pubblicate e consultabili sui siti delle principali testa te cattoliche e del convegno stesso. L’agenda c’è, il percorso è segnato: occorrono ora gambe e volontà votate a perseguire linee che sembrano porre la Chiesa in una nuova epoca finalmente in grado di attuare le tante promesse ancora non mantenute del Concilio Vaticano II.

Mario Agostino

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