Responsabilità sociale / Rifugiati: il ruolo delle università nella gestione della crisi

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“Le università hanno un ruolo e una responsabilità sociale importante nella crisi dei rifugiati. Potrebbero ad esempio offrire classi online nei campi o ancora educare i propri studenti a una conoscenza scientifica dei migranti e dei rifugiati. Cosa stanno facendo? Cosa potrebbero fare?”. Anthony Cernera, coordinatore per due mandati della Federazione internazionale delle università cattoliche, un’associazione con oltre 220 atenei affiliati, ha costruito attorno a queste domande la conferenza “Migrants and Refugees in a Globalized World: Responsibility and Responses of Universities”, ospitata fino al 4 novembre nelle aule dell’università Gregoriana a Roma. Papa Francesco, che ha seguito tutto il lavoro preparatorio attraverso padre Miachael Czerny e padre Fabio Baggio, sottosegretari del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale (con particolare riguardo per la cura pastorale dei migranti e dei rifugiati), riceve questa mattina (4 novembre) in udienza privata i partecipanti al convegno. “Certamente ci offrirà la sua visione e la sua prospettiva sui migranti e sul nostro ruolo di educatori e ricercatori”, continua Cernera che all’appuntamento ha invitato anche parecchie università laiche da Harvard ad Oxford per trovare progetti di lavoro comune al servizio dei rifugiati.

Come è nata l’idea di questo appuntamento?
Nell’agosto 2016, guardando all’acuirsi della crisi dei rifugiati e pensando alle loro condizioni ho visto l’agire del governo, delle Chiese, delle agenzie umanitarie e mi sono chiesto cosa stessero facendo le università. Per oltre 20 anni io ho presieduto quella del Sacro Cuore in Connecticut ed ero ben consapevole del nostro mandato. Noi educhiamo, facciamo ricerca, ma abbiamo anche una responsabilità sociale. Ho chiamato alcuni amici di altre università e ho chiesto cosa pensassero della possibilità di preparare una conferenza sulla responsabilità delle università in rapporto alla crisi dei migranti e dei rifugiati. La loro risposta è stata favorevole ed entusiasta come lo è stata quella della Gregoriana, che annovera tra i suoi membri persone coinvolte in attività sociali con i rifugiati. Ci siamo, poi, messi in contatto con la commissione per i rifugiati voluta da Papa Francesco ed è cominciato il lavoro sulla nostra conferenza, che solo nella parte organizzativa ha coinvolto ben 15 partner tra associazioni e agenzie umanitarie.

Quale è il vostro obiettivo concreto?
Questo è un luogo di scambio di best practices, ma non solo. Questo è l’inizio di un processo in cui le diverse agenzie educative e umanitarie cominciano a parlarsi e a lavorare insieme per una strategia comune, che ampli i processi portati avanti magari singolarmente. Speriamo di lanciare un network di continuing education tra università e agenzie umanitarie, in grado di identificare bisogni e soluzioni ai bisogni ed esportare su scala più ampia le buone pratiche, già in atto o che nasceranno, in modo da favorire una cooperazione.

Come avete articolato i lavori di questi giorni?
Il primo giorno abbiamo voluto fare un excursus sulle realtà dei rifugiati e voglio sottolineare il plurale perché la realtà del Medio Oriente non è assimilabile a quanto si vive in Africa o nel Sudest asiatico. Una delle domande di fondo, trasversale alle diverse sessioni, è che tipo di formazione offriamo a chi magari, prima di vivere in un campo profughi, studiava e stava concludendo un percorso universitario, ma poi la situazione politica lo ha costretto a partire. Come possiamo assisterli nel conseguire il loro diploma di laurea o di master. Un altro interrogativo riguarda poi la formazione sulla questione dei rifugiati che mettiamo in atto nei nostri campus. E infine ci chiediamo se esistono temi identificati dalle agenzie umanitarie a cui le università possono offrire risposte, ricerche, esperti. I workshop approfondiscono, ad esempio, le tecnologie necessarie per rispondere al desiderio di istruzione nei campi o ancora come sviluppare programmi di formazione per gli insegnanti o per l’inserimento lavorativo degli studenti, quando rientreranno nei loro paesi.

Cosa implica la responsabilità sociale di un’università?

Guardando ai rifugiati, la prima responsabilità è offrire un’istruzione. Una ricerca ha mostrato che un rifugiato spende in media 17 anni della sua vita in un campo. Oggi abbiamo intere generazioni di bambini che crescono senza alcuna istruzione. Le università possono preparare i docenti che operano in queste situazioni e iniziare almeno la scuola primaria. Un’altra sfida è quella della preparazione professionale. Dopo dieci anni in un campo, come si può tornare a casa senza istruzione e senza una professione? Vorremmo preparare i rifugiati al rientro e alla possibilità di creare lavoro e sviluppare attività.

Le università degli Stati Uniti da cui lei proviene, stanno declinando questa responsabilità assistendo gli studenti immigrati e i rifugiati senza documenti, trasformando di fatto i campus in sanctuary (santuari), cioè luoghi protetti…
Le università sono chiamate a far risplendere la luce della conoscenza e della dignità della persona umana, per questo le santuary universities sono un baluardo di difesa dell’umanità. Un esempio è il programma Daca. Tanti dei nostri studenti sono arrivati negli Usa da bambini, a seguito di genitori senza documenti. Erano bambini e non avevano responsabilità, ma ora non possiamo certo punirli per questo.

Continuare a vedere i migranti come criminali è contro il Vangelo e nelle università cattoliche questa convinzione è anche teologica perché siamo tutti immagine di Dio e quindi sacri.

I vescovi Usa hanno tuonato forte contro la decisione di deportare questi studenti e il Papa stesso continua ad insistere sul mostrare il bene e i benefici che i rifugiati possono apportare alle nostre società.

Mi fa qualche esempio di best practices sui rifugiati già in atto?
Gesuit commons è un’iniziativa di educazione online offerta nei campi profughi. Gli studenti acquisiscono online dei crediti che possono essere collegati ad un diploma all’università di Denver in Colorado. Gli studenti rifugiati non acquisiscono un diploma ma fanno passi verso il conseguimento. L’iniziativa è positiva, ma va sviluppata. Si pone il problema, ad esempio, del Paese in cui registrare questi diplomi, del sistema di valutazione e del riconoscimento di questi titoli. L’università cattolica dell’Australia, ha sviluppato un sistema di istruzione online nei campi della Thailandia e offre diplomi di master ai suoi studenti. Tutti questi modelli, fino ad oggi isolati, ora possono mettersi in rete e scambiarsi progetti ed esperienze in modo da andare avanti ed allargare l’offerta formativa.

In questo progetto educativo c’è un ruolo anche per i media?
I media possono essere costruttori di dialogo e creare opportunità di conoscenza, di scambi che aiutino ad avere una comprensione reale del problema e aiutino a cambiare le prospettive di lettura del rifugiato: non un nemico, ma un amico poiché gli esseri umani sono tutti intrecciati di sogni, desideri, obiettivi, lacrime e paure, a qualunque latitudine. In ambito locale poi, i media possono favorire la conoscenza di buone pratiche di accoglienza. Ad esempio in una cittadina vicina alla mia, in Connecticut, 17 comunità religiose si sono messe insieme per accogliere dei rifugiati, insegnarli l’inglese, fargli lezioni di guida, aiutarli ad inserirsi. Le persone che prima si sentivano scoraggiate, piccole di fronte al potere o ai grandi flussi migratori, hanno ritrovato motivazione spirituale e un nuovo senso di comunità, proprio occupandosi di chi era in difficoltà. E la tv e i giornali hanno amplificato i risvolti positivi di questa storia.

Maddalena Maltese

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