Il gap strutturale del Mezzogiorno nei confronti del Nord, è in gran parte determinato dalla cattiva gestione del “sistema salute”, che incide all’80-90% sui singoli bilanci delle Regioni, impedendo gli investimenti necessari per lo sviluppo. Sono almeno tre le deficienze più eclatanti dell’organizzazione sanitaria meridionale: il 32% della spesa destinato al personale, il rapporto tra posti letto e medici, la “forte migrazione” verso il Nord. Una risposta a questo stato di cose potrebbe essere costituita dalla diffusione delle “reti cliniche”. Uno studio dell’Osservatorio Fiaso, la Federazione di Asl e Ospedali, realizzato in collaborazione con la Sda Bocconi di Milano, spiega di che cosa si tratta: la “rete clinica” è una collaborazione, in forma stabile, tra Unità operative e/o professionisti appartenenti a diverse Aziende sanitarie di una medesima Regione, che abbia a oggetto il processo di cura del paziente, i servizi di supporto o la circolazione delle informazioni e delle conoscenze. In altri termini: una persona si ricovera nel reparto di urologia di un ospedale e il suo caso viene seguito in team da specialisti di un altro ospedale; insieme, i professionisti decidono diagnosi e terapia. L’esperienza delle “reti cliniche” è nata nella sanità pubblica inglese e di altri Paesi anglosassoni. È partita in Italia nei primi anni duemila ed è dal 2008 che il modello inizia a espandersi, passando nelle Regioni censite da una cinquantina di esperienze alle oltre 140 dello studio al 2012, fino alle 275 attuali. È, insomma, una piccola rivoluzione, che può incidere in maniera determinante sulla questione dei risparmi, sulla “bontà” della cura e che in percentuale consistente tocca il Sud, dove sono presenti 75 “reti cliniche”. Delle reti censite, alcune sono solo programmate, ma non partite, mentre altre sono in fase di start-up. In tutto, quelle effettivamente funzionanti sono 87, di cui 22 nel Mezzogiorno. Il Sud registra una percentuale del 30,6% delle esperienze complessive, un dato che testimonia quanto l’innovazione fa parte della cultura del Mezzogiorno. Sono l’emergenza-urgenza, l’oncologia, la laboratoristica e la salute mentale, le branche specialistiche che più si sono diffuse attraverso le “cure in rete”. La logica delle “reti cliniche” è analoga a quell’esperienza formidabile che si sta diffondendo in molti territori dei Paesi in via di sviluppo, in particolare in Africa, dove l’apporto della tecnologia è decisivo in campo sanitario. Da quest’esigenza, è nata la telemedicina, che attraverso l’impiego di reti di telecomunicazione tra professionisti, consente, da un lato di realizzare un “salto tecnologico”, dall’altro di assicurare la formazione e l’aggiornamento degli operatori sanitari, oltre l’accesso ai database internazionali e alle banche d’immagini, la partecipazione a sedute di conferenze elettroniche e a programmi di formazione a distanza. Uno dei risultati che si ottiene è la diminuzione del numero di pazienti che devono essere trasferiti dagli ospedali rurali a quelli urbani e da questi ultimi all’estero, favorendo un risparmio di tempo e un’economia dei costi rappresentati dai trasferimenti “sanitari” verso i Paesi industrializzati. La possibilità di eseguire una biopsia spedita per via telematica e interpretare i risultati in tempo reale, confrontandosi con medici che esercitano a migliaia di chilometri di distanza, consente di superare questo problema. Un altro vantaggio è la messa in rete e la gestione informatizzata delle risorse ospedaliere rappresentate dai depositi farmaceutici, fatto che incide sulle risorse destinate alla sanità. Se questo “modello” fosse esteso in maniera capillare anche nel Sud del nostro Paese, si concorrerebbe ad affrontare seriamente i numerosi problemi che ora impediscono al “sistema salute” di porre al centro della sua azione i diritti della persona.
Roberto Rea