Trionfo di Ken Loach con “I, Daniel Blake”, la storia dell’incontro fra un carpentiere reduce da un infarto e una giovane mamma single senza lavoro. A quasi ottant’anni, il regista britannico torna a parlare di lavoratori, genitori, persone che all’improvviso si ritrovano in mezzo a una strada a causa di un infortunio, una malattia, un caso della vita. Vicende umani, reali e toccanti, di persone comuni che devono lottare per la sopravvivenza.
A trionfare all’ultima edizione del Festival di Cannes è stato Ken Loach con “I, Daniel Blake”, la storia
dell’incontro fra un carpentiere reduce da un infarto e una giovane mamma single senza lavoro. A cinquant’anni esatti da “Cathy come Home”, il suo film per la tv dedicato agli homeless, il regista britannico torna a parlare di lavoratori, genitori, persone che all’improvviso si ritrovano in mezzo a una strada a causa di un infortunio, una malattia, un caso della vita. E a quasi ottant’anni Loach non vuole smettere di raccontare le vicende umani, reali e toccanti, di persone comuni che devono lottare per la loro semplice sopravvivenza.
Il suo cinema civile, coerente per stile e per soggetto, sembra non volere andare in pensione
e la vittoria a Cannes (10 anni dopo “Il vento che accarezza l’erba”, film storico sulla guerra civile in Irlanda) decreta ancora una volta la sua forza e soprattutto la sua sempre perenne attualità.
Un cinema il suo che, dopo le forti vene polemiche ed ideologiche dei primi anni, si è “smorzato”, in senso positivo, verso una pacata denuncia, meno faziosa ma pur sempre legata alla politica, delle condizioni di miseria degli ultimi e degli invisibili delle nostre società occidentali avanzate.
Un’attenzione ai poveri, agli emarginati, a chi, per differenti motivi, viene lasciato colpevolmente indietro da una società proiettata verso i valori del denaro, della bellezza, della gioventù e del successo ad ogni costo.
Un cinema dalla parte dei deboli, descritto con l’urgenza di chi non vuole arrendersi di fronte alle ingiustizie del mondo e le denuncia attraverso un linguaggio realistico, che parte dall’osservazione partecipata delle vicende che racconta. Un cinema ad altezza dell’uomo che ne racconta la dignità e l’integrità, anche di fronte a situazioni che invece tendono a privarlo del tutto della propria rispettabilità.
Non a caso nel 2012, l’Ente dello Spettacolo aveva assegnato proprio a Loach, durante il Festival di Venezia, il prestigio Premio Bresson, che viene riservato a tutti quei cineasti che, come l’autore francese Bresson, si sono spesi e si spendono per film che raccontino l’uomo, la moralità, la spiritualità. Il premio a Loach era stato assegnato a lui perché: “Come lui nessuno mai: Ken Loach è l’epitome stessa dell’impegno al cinema. L’ultimo working class hero della settima arte, capace di coniugare realismo e virate immaginifiche, empatia e critica sociale, nel segno di una costante attenzione per i più deboli. Per Ken Loach il cinema può ancora cambiare il mondo: può entrare in fabbrica e nelle periferie, nella marginalità e nella disperazione, per uscirne più forte e consapevole, affidando al proiettore un raggio di luce che squarcia le tenebre della sperequazione, dell’homo homini lupus. Assegnare a Ken Loach il Premio Robert Bresson istituisce un ponte tra questi due grandi cineasti, e dove risiede questo legame se non nella comune umanità, la condivisa volontà di dire qui e ora dell’Uomo e dei suoi aneliti, della lotta quotidiana per un futuro migliore, e dignitoso”.
Anche il Festival di Cannes, dunque, offre un nuovo tributo oggi a questo cineasta degli ultimi, dei poveri e degli sconfitti, che riaffermano, però, sempre, la loro profonda dignità e umanità.
Paola Dalla Torre