Avro’ avuto circa 7 anni e considerato che ho già soffiato sulle mie “sessanta” candeline, il tutto è riconducibile a più di 50 anni or sono. Quel 4 febbraio sembrava una mattina qualsiasi. Una di quelle giornate in cui il passaggio tra il calore di casa e l’austerità della classe, per uno scolaro, è un cammino obbligato.
La mamma quel giorno, invece, di buon mattino, mi disse che non sarei andato a scuola: avremmo visto l’arrivo di Sant’Agata a Piazza Jolanda.
Per noi della zona Est di Catania, immediatamente a ridosso della scogliera lavica, quella piazza è il punto più vicino toccato dalla processione.
Uscimmo di casa e, non appena varcato il portone, la visione che ci si presentava era simile a quella di un formicaio che procede verso la stessa meta.
A passo sostenuto, con un sorriso più o meno accennato, eravamo tutti incamminati sulla medesima traiettoria. Qualcuno, a braccio, portava un fascio di fiori che traluceva nel cellophane trasparente.
Benchè dalle “vanedde” sbucassero crocchi di famiglie e frotte di ragazzi ad ingolfare il nostro tragitto, eravamo, ciò nonostante, determinati nella percorrenza.
Ci destabilizzava solo, con la istantaneità di un flash, una perentoria “cannonata”.
Ad intervalli misurati, scandiva i tempi della giornata di festa e ci orientava verso il fulcro della processione.
In una nuovola di aromi cresceva l’attesa
Provenendo dal Corso Italia, giunti all’ imbocco del Viale della Libertà, si intravedeva in lontananza un tetto di palloncini a forma di coniglietto, proiettati verso l’alto.
Tra essi, si facevano spazio le spirali di fumo dei caliari, miste ad odore stuzzicante di torrone, frutta caramellata, zucchero filato e noccioline americane.
Arrivati a destinazione, ci guadagnavamo uno scarso mezzo metro quadrato a persona e, giù di lì, a divorare l’attesa. Nel frangente che precedeva l’ arrivo del fercolo, ciascuno degli occupanti con la sua microstoria, diventava portatore di preghiere.
E la piazza, prevalentemente intesa come spazio privilegiato per l’aggregazione, in quel contesto, si prestava ad essere un altare a cielo aperto.
Sì, perchè il ricorso all’intercessione dei Santi, è il contrappeso alle tribolazioni che costellano la nostra vita. È la ricerca di una risposta concreta ad una delicata vicenda personale o familiare da cui non riusciremmo a svincolarci, se non con la loro mediazione.
L'”annacata” dei Cerei ci preparava all’incontro con la Santa
Poi, ad un certo momento, come per incanto, dalla spianata della Stazione Centrale, si incolonnava la lunga teoria dei Cerei. Essi, immagine esuberante del Barocco in movimento, ci preparavano, in una sorta di percorso catechetico, all’imminente incontro con Sant’Agata.
Mentre i vari siparietti istoriati scorrevano in successione, tutti ammiravamo l’imponenza di quelle magnifiche strutture che si dinoccolavano con la classica “annacata”.
Dopo che l’ultima candelora spariva lungo la Via Umberto verso via Grotte bianche, l’attesa si faceva più trepidante. E quando il momento fatidico era ad un tiro di schioppo, lo si percepiva nell’istante in cui la confusione si infittiva come le tessere di un grande mosaico.
Una pioggia di strisce di carta colorata salutava finalmente l’arrivo del fercolo.
L’ insistente scoppio della moschetteria, sottolineava che Sant’Agata aveva rivolto il suo sguardo verso la piazza.
L’incanto della Patrona aveva trasformato, però, quel fragore in inno di gloria che, come profumo d’incenso, si elevava in cielo.
L’emozione dell’incontro
E mentre la folla si diradava per assieparsi alla Fera o’ Luni, il lungo cordone dei “cittadini” si liquefaceva su tutta la via, alla stregua di un placido flusso sanguigno.
All’apice del lungo fiume di sacchi bianchi, procedeva lenta e solenne, l’immagine di Sant’Agata. Tutti, all’incedere del fercolo, salutavamo le Sacre Reliquie con il segno di croce.
Lacrime di commozione scivolavano silenziose e segrete. In quel niente detto, c’era la profondità di una richiesta che Agata Patrona avrà presentato al Suo Signore.
Poi col cuore contento, si tornava a casa.
Mentre ci incamminavamo, era un rigirarsi di continuo per guadagnare anche l’ultima immagine del fercolo che svaniva in lontananza.
Alle 17, 30, tornato papà dal lavoro, gli raccontai per filo e per segno, con lo stupore di un bambino, l’esperienza della mia prima festa .
Egli, orgoglioso della mia accurata narrazione, mi disse che di lì a poco, anche lui, sarebbe andato ad omaggiare Sant’Agata. “L’ aspetterò mentre scende su via Plebiscito – disse – e ti racconterò come lì, si prega e si piange di amore per Lei”. Parole appassionate.
Non ricordo cosa poi mi disse. Ricordo solo che, da quel 4 febbraio, Sant’ Agata è entrata nel mio cuore!
Marcello Distefano