Difficile definirlo, sempre che definire qualcuno sia la strada giusta. Ennio Morricone, che si è spento a Roma all’età di 91 anni, non era solo musica: era cinema, e che cinema, ed era suono, immagine, letteratura.
Era, in poche parole, lo spirito del tempo.
Uno spirito che ha messo in contatto la gente che, dai Sessanta in poi, sedeva nei piccoli cinema di provincia o in quelli oceanici di città a vedere western, costume, narrazioni di gang, amore, storia con la maiuscola, con l’intera cultura di un tempo che vedeva disgregarsi vecchi idoli e nascere contraddittori sogni di benessere da una parte e di amore e fraternità dall’altra.
Non vogliamo ricordarlo per i Grammy Awards, i Golden Globes, i David di Donatello, il Leone d’oro alla carriera, ma per quel geniale incontro di musica classica, contemporanea, opera, ambient, melodico e rock che lo hanno reso riconoscibile, anche negli episodi minori, tra quanti hanno frequentato quelle buie sale cinematografiche.
Carpenter, De Palma, Nichols (quello del “Laureato”, tanto per dire), Stone, Tarantino, Leone, Corbucci, Tessari, Bellocchio, Pontecorvo e molti altri sono stati i registi che gli hanno chiesto di comporre le musiche dei loro film. Alcune di queste resteranno non solo nella Storia, ma nell’immaginario collettivo di tutti coloro, e sono milioni, che uscendo dal cinema, come per una pulsione inconscia, hanno preso a fischiettare il refrain di “Metti una sera a cena” di Giuseppe Patroni Griffi o di “Per un pugno di dollari” di Sergio Leone; abbiamo fatto solo due poveri esempi, tra tanti, quelli in cui suoni non strumentali, vocalizzi, fischi, campane, cori non canonici hanno costruito degli episodi unici nella storia del connubio cinema-musica.
E ci sarebbe da dire anche su come Morricone sia riuscito a realizzare il suono di episodi, come nel caso di “Mission”, in cui fede, azione, colonialismo, sacrificio avrebbero teso trappole mortali per chiunque altro, troppo forte era il rischio della malinconia, della tristezza, del suono esotico. In “Mission” atonalità e tradizione, melodia e ricerca di ciò che è forse impossibile dire, avrebbe detto Eliot, ad orecchi umani, trovano un miracoloso punto di consistenza che lascerà il segno per il cinema e la musica a venire.
Grazie, Maestro, per aver abbattuto le barriere tra classico e moderno, tra canzone e opera, e per averci accompagnato nei pomeriggi domenicali passati nelle (un tempo si poteva fumare lì dentro) fumose sale cinematografiche a celebrare le allora inconsapevoli nozze tra cinema e cultura di tutto un tempo.
Marco Testi