Il Senatore Robert Kennedy costituisce indubbiamente oggi una delle tre figure fondamentali, centrali e rappresentative degli Stati Uniti degli anni “60 e si trovò al centro della politica di quel particolare momento storico, insieme al fratello presidente John Kennedy ed al leader dei diritti civili, Martin Luther King. Orientò le decisioni della Nazione con grande autorevolezza a favore di una scelta verso l’equità sociale ed in direzione dei poveri e delle altre classi, che più richiedevano l’intervento dell’Esecutivo. In campo internazionale promosse una azione volta a difendere la pace nel Mondo, con iniziative diplomatiche solide, costruttive e rigorose.
È allora inevitabile ripercorrere la storia di questa carismatica personalità, a 50 anni dal giorno in cui – il 5 Giugno 1968 a Los Angeles – fu fatto oggetto di quel proditorio agguato e divenne a sua volta vittima di quella stessa violenza politica che cinque anni prima aveva colpito il Presidente a Dallas ed appena due mesi prima Martin Luther King a Memphis. È importante mettere a fuoco le motivazioni politiche ed i valori morali che ispirarono l’azione civile del Senatore di New York, il quale appariva già a metà del “68 col sostegno determinante di una vasta area del Paese il più probabile vincitore della corsa alla Casa Bianca per quell’anno.
Settimo di nove figli della famiglia dell’ambasciatore Joseph Kennedy e di Rose Fitzgerald, aveva dovuto lottare molto all’interno di essa, per emergere nella competizione tra fratelli durante le gare sportive e poi nella vita, nell’attività professionale che aveva all’inizio abbracciato, come avvocato al Dipartimento della Giustizia. Le persone che gli furono vicine e lo frequentarono assiduamente con un legame di amicizia, ovvero come collaboratori della sua attività professionale, attestarono lo stile laconico e la personalità a volte introversa e triste. L’incarico, d’indubbio spessore e rilevanza nazionali e che gli diede l’occasione di far valere l’impegno con cui si dedicò ad esso con una organizzazione impeccabile, fu quello di Consulente giuridico Capo della Commissione McClellan, che doveva indagare su un sistema di raggiri e truffe, elaborato per distrarre ad altri fini i fondi sindacali, versati dagli autotrasportatori. Robert Kennedy esercitò in quella sede le funzioni dell’accusa, con coraggio e con energia ma soprattutto con imparzialità ed obiettività, ed ammise ed accettò anche le prove a discarico, portando però alla fine alla luce le diverse malversazioni che erano state commesse a danno dei lavoratori dei trasporti. Il fratello senatore del Massachusetts fu pure componente politico della Commissione stessa, col fine di studiare e valutare i difetti delle attività sindacali e proporre poi, nella sua attività di membro della sottocommissione sulla legislazione del lavoro le opportune ed appropriate modifiche legislative, su quelle accertate devianze. Raccolti poi tutti gli elementi fondamentali della sua indagine al servizio della Commissione senatoriale, li memorizzò e li descrisse in quella che fu la sua prima, interessante opera letteraria avente titolo, efficace e significativo, di “Il nemico dentro”. Passò in rassegna i personaggi protagonisti, i testimoni e le prove e fece anche proposte valutando l’attività intimidatoria subita, per quella così lunga e complessa investigazione. Devotissimo al fratello senatore perfino nella misura anche maggiore di quella che la famiglia avrebbe potuto chiedergli in virtù della “semplice” solidità di rapporto che pure collegò tutti i membri Kennedy in una unità d’intenti e gioco di squadra, convergenti ed efficaci, divenne il più importante artefice del successo elettorale sia della campagna senatoriale del 1952, in cui John Kennedy fu eletto Senatore dello Stato del Massachusetts, prevalendo su Henry Cabot Lodge al di là di ogni pronostico, come della presidenziale del 1960, con John Kennedy eletto il presidente più giovane ed unico cattolico, della storia americana.
In quest’ultimo cimento, Robert Kennedy diede tutto sé stesso al fratello, con uno spirito di sacrificio ed una generosità indomabili, riunendo una organizzazione della campagna capillare ed intelligente, prestando ascolto ai bisogni dell’elettorato, come nel caso dell’episodio decisivo, per l’esito della sfida tra John Kennedy ed il vicepresidente uscente Richard Nixon. In esso, Robert Kennedy avuta notizia del fermo giudiziario di Martin Luther King causato da un banale episodio di violazione delle norme sul traffico intervenne presso l’autorità giudiziaria al fine di fargli ottenere la libertà. L’episodio, favorevole al dottor King, determinò poi – al momento dell’esercizio successivo del diritto di voto – il sostegno della comunità nera americana, la quale in massa fu favorevole al senatore del Massachusetts, promuovendone in modo decisivo il successo in quella competizione avente come meta la presidenza degli Stati Uniti.
Nonostante avesse avuto un importante, fondamentale ruolo nell’elezione di John, con la gestione di una macchina organizzativa tanto complessa e poderosa, Robert Kennedy non fu interessato a qualche particolare incarico, anzi rimase a lungo incerto e combattuto tra l’eventuale accettazione di far parte dell’Amministrazione, come consigliere, e l’aspirazione invece di cercare una carriera tutta nuova mettendosi in corsa per il governatorato del Massachusetts, cioè per una carica in cui avrebbe potuto, una volta eletto, lavorare autonomamente senza rimanere nell’area della Casa Bianca e soprattutto senza correre rischi di esporsi a critiche di nepotismo.
Fu per tali motivi che allora quando John Kennedy gli propose la nomina a segretario alla Giustizia, l’unica carica rimasta ancora vacante dopo le rinunce dei governatori Stevenson e Ribicoff, oppose una forte resistenza, ma issò il vessillo di resa di fronte ad una aspirazione del fratello che gli veniva sottoposta come necessità di potere avere nel governo della Nazione, accanto a sé, una persona su cui potere fare affidamento senza alcuna riserva. Di fronte ad una richiesta pressante del Presidente che incontrava difficoltà a trovare un candidato per la carica di Procuratore Generale, non si tirò indietro pur conoscendo in anticipo che – in qualità di garante dell’osservanza della legge – avrebbe dovuto promuovere procedimenti scottanti su mafia e corruzione nella P.A., aprire fascicoli a carico delle industrie che manovravano per la formazione dei cartelli sui prezzi, ed in disprezzo alla libera concorrenza sui mercati, difendere infine l’imparzialità della tutela dei diritti civili in una Nazione ancora soggiacente – a 100 anni dal Proclama di emancipazione degli schiavi di Abraham Lincoln – a paurosi fenomeni di resistenza razzista nella libertà d’insegnamento e nell’esercizio del diritto di voto, nei persistenti rigidi divieti razziali nei trasporti, negli alberghi e nelle ristorazioni.
Il neo-Ministro potenziò la lotta alla mafia, mettendo a disposizione di essa una struttura che nel 1960 conteneva appena 17 persone e nel 1963 raggiunse i 171 elementi. Indagò anche le speculazioni finanziarie, intervenne ripetutamente nelle vertenze che avevano per scopo l’annullamento di ogni arbitrario aumento dei prezzi dei prodotti industriali. Le società dell’acciaio furono costrette – nella Primavera del 1962 – a dover recedere dalle loro iniziative che avrebbero dato forza all’inflazione dopo aver subito la reazione dell’Amministrazione con inchieste della polizia federale, pressioni dell’opinione pubblica, ed annullamento di importanti contratti governativi. Promosse inchieste sulle intese volte a fissare i prezzi e su altre attività non autorizzate dalla legge, ottenendo risultati positivi, perché fece discendere i prezzi ma anche provocare le proteste degli industriali.
Nel 1963, la sezione anti-trust del Ministero della Giustizia vinse 45 cause su 46 iscritte a ruolo e l’Amministrazione intervenne anche nelle controversie di lavoro attivando il Ministero della Giustizia affinché i dipendenti licenziati per avere fatto parte di iniziative sindacali od a carattere politico, fossero invece riassunti in servizio. In qualità di Ministro della Giustizia, Robert Kennedy propose alla Nazione una vasta azione riformatrice in diversi settori, di concerto con altri colleghi, per esempio in quest’ultimo caso col Ministro del Lavoro. Sulla spinta delle proteste non violente, organizzate da Martin Luther King contro episodi di discriminazione razziale che interessarono il Paese e soprattutto alcuni Stati come il Mississippi, l’Alabama ed il Tennessee, il Procuratore Generale propose il varo del disegno di legge sui diritti civili in cui previde l’introduzione di sanzioni penali per i funzionari che rifiutavano di dare esecuzione ai provvedimenti emanati dall’Autorità Giudiziaria in materia di discriminazione razziale.
Con riferimento a queste fondamentali linee guida del Ministro della Giustizia, in quello stesso periodo storico, la Chiesa Cattolica con l’Enciclica di Papa Giovanni XXIII “Mater et Magistra”, aveva auspicato il superamento della logica del mercato e della legge del più forte e l’inquadramento del rapporto di lavoro in un ambiente di solidarietà tra imprese e lavoratori, in cui il lavoro, espressione della persona umana, fosse considerato secondo giustizia ed equità. Da tutto questo doveva derivare a sua volta una diversa logica del calcolo del profitto dell’impresa che si riversava sia nella valutazione dell’equità dei salari come pure in quella della solidità dell’offerta, con il sistema dei prezzi dei prodotti dell’impresa. Papa Giovanni aveva ben evidenziato nella “Mater et Magistra” tutti i profili della questione e sottolineato anche la giusta remunerazione dei prezzi e la giusta azione pubblica moderatrice dello Stato, sotto il doppio profilo del controllo pubblico dell’inflazione – per mezzo delle linee generali della politica economica – ed anche per mezzo dell’intervento specifico nel settore, con provvedimenti amministrativi sui prezzi. L’Amministrazione Kennedy si astenne da qualsiasi imposizione amministrativa sui prezzi, ma dettò parimenti in sostituzione altre misure indirette che scoraggiavano comunque le imprese dal procedere ad aumenti, comunque ingiustificati di essi.
Dalla “Pacem in Terris”, la tutela della comunità umana, nella pace sociale ed internazionale, esigeva la cessazione di tutte le forme di discriminazione, dovute a razza, sesso, condizione sociale ed altro. Come è noto, nell’autunno del 1962, l’Amministrazione Kennedy fece fronte alla dura prova del confronto politico e diplomatico intorno alle basi missilistiche sovietiche, poste sull’isola di Cuba. Il presidente Kennedy riuscì a convincere il Primo Ministro sovietico della necessità di dover ritirare tutto il materiale bellico trasferito a Cuba, come armamento avente carattere difensivo e Robert Kennedy fu il vero stratega dello sbocco pacifico e diplomatico della crisi, l’uomo sulle cui spalle il Presidente affidò il duplice compito di tenere a freno il Consiglio per la Sicurezza Nazionale (che nella sua maggioranza, era per l’invasione dell’isola di Cuba) e di tenere al contempo i rapporti con l’ambasciatore sovietico a Washington, Anatolji Dobrinin consistenti nel compito di trovare una soluzione di compromesso alla crisi nel più breve tempo possibile. Robert Kennedy se la cavò in modo impeccabile in entrambi i due incarichi ed ai consiglieri del NSC, pronti ad invadere Cuba, fece osservare che gli Stati Uniti “non potevano essere l’Ammiraglio Tojo degli anni “60”, con chiara allusione all’attacco giapponese a Pearl Harbour del 1941, mentre all’ambasciatore sovietico espose le fortissime pressioni che i militari stavano esercitando sul fratello Presidente, affinché desse avvio ad una guerra per Cuba, od addirittura ad uno scontro termo-nucleare con l’URSS. “Il Presidente sta resistendo ma non sa fino a quando potrà resistere” ad una pressione così formidabile, confidò Robert a Dobrinin, col cuore in mano, finché non ottenne da Khrushchew il ritiro dei missili e con esso il salvataggio della pace mondiale.
Il fatto estremamente significativo di quella così pericolosa crisi fu costituito dagli accordi politici che fecero da cornice al patto per Cuba. Essi furono infatti il preludio di quella “riduzione bilanciata degli armamenti, da realizzare con accordi comuni e garanzie”, di cui è cenno nel messaggio del presidente Kennedy all’ONU, del settembre 1961, ma che in concreto potevano giungere in porto solo attraverso la “reciproca comprensione e valutazioni serenamente obbiettive”, secondo i fondamenti della “Pacem in Terris”.
È importante sottolineare che Robert Kennedy s’impegnò con molta professionalità, per costituire, insieme con l’allora ambasciatore sovietico a Washington, Anatolji Dobrinin, le basi per il Patto per Cuba tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica ed anche le premesse future delle altre convenzioni tra le due super-potenze. Poi, improvvisamente, quella politica, di progresso, solidarietà, concordia e pace sembrò dissolversi in un baleno: la tragedia di Dallas, il grande dramma che attraversò il Mondo, seminando ovunque orrore e dolore, parve porre drasticamente fine al grande sogno della Nuova Frontiera che il presidente John Kennedy aveva generosamente proposto ai popoli della Terra.
Robert Kennedy pur profondamente colpito dal dolore per la perdita in modo così tragico del Presidente che amava immensamente, non si arrese alla crudeltà degli eventi e neppure pensò che tutto fosse dipeso dal fato o dal destino. Sul breve tenne l’incarico di Procuratore Generale, anche per controllare e valutare l’andamento dell’inchiesta “sugli avvenimenti del 22 Novembre”, come si esprimeva quando il pensiero cadeva sul delitto di Dallas, ma poi, nella primavera del 1964 meditò coraggiosamente la decisione di continuare a portare avanti gli ideali ed i valori morali del Presidente scomparso. È importante la valutazione della svolta che il Ministro della Giustizia volle imprimere alla sua vita, ripercorrendo il testo della dichiarazione che rilasciò a Berlino Ovest, il 26 Giugno 1964, nel primo anniversario della visita del Presidente al Muro: “Hanno pensato che perito colui che portava la fiaccola, un’era fosse finita prima del tempo, che fossero finiti l’idealismo e la speranza…io so che la fiaccola brucia ancora ed illuminerà il futuro. Questa per me è una sfida che rende la vita degna di essere vissuta”. Si presentò allora per il seggio di senatore a New York e vinse la competizione in modo da divenire l’alfiere della lotta alla povertà ed in politica estera, il propugnatore della pace attraverso il disarmo. Visitò così le zone depresse degli Stati Uniti, annotò la tragica realtà della miseria dei poveri, dei neri e dei diseredati, nei ghetti e negli slums urbani, e da quelle visite trasse argomenti per gli interventi al Senato, sostenne ed appoggiò le leggi sociali al Congresso. Visitò anche l’America Latina, l’Africa e le altre zone depresse del Mondo, constatò lo stato di applicazione dell’Alleanza per il Progresso e le carenze di essa, con la deviazione dei fondi assegnati a fini non istituzionali. Già l’Enciclica Populorum Progressio aveva dato un giudizio sfavorevole sul liberismo sfrenato e l’imperialismo economico che rifiutavano di porre l’economia al servizio dell’uomo. Le riforme da attuare dovevano essere coerenti ed in armonia con la comunità che li doveva accogliere, applicandole in concreto, e con le risorse a disposizione. Lo scopo della Populorum Progressio – come anche della Alleanza per il Progresso – era quello di eliminare le grandi ingiustizie nella distribuzione delle risorse (considerate nell’Enciclica “ingiurie alla dignità umana”), dato che l’iniziativa imprenditoriale privata era ritenuta da sola insufficiente ad assicurare lo sviluppo al servizio dell’uomo, senza l’intervento e le scelte dei poteri pubblici.
Robert Kennedy si occupò di tutti questi problemi nell’altra sua opera letteraria, “Per un Mondo migliore”. Esaminò il malessere dei giovani e spiegò i motivi delle loro proteste (“mancanza di ideali in una società meccanizzata”), parlò dei negri e della trasformazione dei ghetti in comunità evolute, girò lo sguardo sull’America latina (“mettendoci dalla parte delle forze che vogliono la riforma agraria e la giustizia sociale”) fece riferimento ad un completo accordo sul controllo nucleare, e ad una nuova politica verso la Cina (“di mutua accettazione delle pretese e degli interessi di ciascuna nazione”).
Il 4 febbraio 1967 il senatore Robert Kennedy, giunse a Roma, tappa di un lungo itinerario attraverso diverse capitali europee, per esporre il piano di pace, sul Vietnam, elaborato dalla sinistra democratica americana, prima di presentarlo direttamente ad Hanoi ed a Saigon, e in quell’occasione incontrò anche il Papa Paolo VI. Il piano prevedeva la sospensione dei bombardamenti americani, sul Vietnam del Nord, la formazione di un governo di unità nazionale e l’apertura di trattative di pace. I tempi non erano però ancora maturi per un suo decollo, in quanto l’amministrazione americana in carica riteneva sempre di poter vincere la guerra attivando i bombardamenti. Il Papa stesso era tormentato dal conflitto vietnamita, che sembrava non dovesse aver mai fine. Nel frattempo l’offensiva del Tet ebbe influenza anche sullo svolgimento della campagna elettorale del 1968, dal momento che le elezioni primarie del New Humpshire registrarono il successo di quelle forze politiche, che si opponevano alla politica guerrafondaia dell’Amministrazione in carica, tra queste quella di Eugene McCarthy, senatore del Minnesota, che fu il primo, nel Partito Democratico, che volle porre la propria candidatura alle primarie presidenziali, in nome della pace subito in Indocina. Il 16 Marzo 1968, dopo un lungo e meditato travaglio interiore, Robert Kennedy impegnò sé stesso, la sua generosità ed il suo coraggio, il suo senso del dovere verso la Nazione, i grandi ideali e valori morali, bandiera di tutta la Famiglia Kennedy, e si presentò a sua volta per concorrere ai fini della nomination democratica.
All’inizio della primavera del 1968, infatti sembrò che l’opinione pubblica statunitense, potesse orientarsi – almeno alle “primarie” – verso il senatore Kennedy, il quale appariva, rispetto a Eugene McCarthy, più realista, più concreto, ed in definitiva più attrezzato a prevalere, in una lunga gara, fatta di ripetuti colpi di scena, spietati attacchi personali e dominata certamente dai media, esigenti ed incalzanti. La lunga contesa era appena iniziata, e l’Amministrazione in carica aveva appena rinunciato, il 31-03-1968, ad una possibile richiesta di riconferma, le marce contro la guerra erano sempre più affollate, convinte e sostenute con entusiasmo, quando venne a mancare in un tragico agguato a Memphis, nel Tennessee, Martin Luther King, il quale, il 4-04-1968, si trovava da qualche giorno in quella città, per dirigere un importante raduno dei netturbini, su un tema sociale, di generale interesse per quella categoria di lavoratori, un motivo vivo, che aveva trovato ampio spazio nelle Encicliche sociali di Papa Giovanni e di Papa Paolo. Allora, ancora una volta, la violenza e la tragedia irruppero nella campagna elettorale in corso appena iniziata, portando il peso della drammatica attualità, e l’avvertimento anche di un drammatico messaggio d’allarme. Nonostante tutto, un concreto segno di speranza si accese a Parigi, il 13 Maggio 1968: i negoziatori di pace del Vietnam, erano finalmente riuniti, e per discutere sulla pace, e le diffidenze ed i rancori tra Washington ed Hanoi sembrarono dissolversi quasi per puro miracolo, mentre le primarie del Partito Democratico evidenziavano l’affermazione del Senatore di New York su McCarthy in quattro dei cinque Stati (Indiana, Nebraska, South Dakota e California) ai quali aveva assicurato la partecipazione (con l’unica sconfitta nell’Oregon, il 28 Maggio 1968). Robert Kennedy, propose un lineare messaggio di unità e pace all’interno del Paese dimostrando intelligenza e maturità, mentre la memoria del Presidente, tragicamente scomparso, rimaneva più che mai viva e presente al centro della competizione.
Ma, la prospettiva che il fratello del presidente Kennedy potesse essere ritenuto ormai dai commentatori politici e dai media come sicuro vincitore prima alla Convention di Agosto a Chicago e poi come l’uomo da battere per i democratici a novembre avendo dalla sua parte la maggioranza del Paese e cioè i giovani, i neri, gli intellettuali, i cattolici e le donne, lo espose alla violenza politica. La notte tra il 4 e il 5 giugno 1968, mentre aveva appena finito di commentare con i supporters politici la decisiva vittoria appena ottenuta alle primarie della California, divenne bersaglio , all’Hotel Ambassador di Los Angeles, di diversi colpi di pistola, esplosigli alle spalle e da distanza ravvicinata, lasciandolo mortalmente ferito. Le immagini registrate, della tragedia, rivelano ancora oggi incredulità, sgomento, paura ed orrore, cioè quei sentimenti che da Los Angeles si estesero immediatamente in tutto il Mondo, coinvolgendo tutti indistintamente nell’incontenibile e generale dolore degli Stati Uniti. La pace nel Vietnam, che sembrava ormai a portata di mano, si allontanò di nuovo e doveva attendere altri cinque anni e registrare altri lutti e rovine tra tutte le parti in conflitto.
L’attentato al senatore Robert Kennedy fu certamente un atto di violenza senza alcuna plausibile spiegazione o giustificazione se non quella di fermare il Senatore di New York a qualunque costo, proprio nell’esatto momento in cui le condizioni per ottenere l’investitura dal Partito Democratico alla Convenzione di Chicago erano dalla sua parte. Ed erano proprio le medesime realizzazioni storiche che avevano visto, nell’autunno del 1963, John Kennedy ritenersi sicuro della rielezione, l’anno successivo, in virtù della presenza a suo fianco della maggioranza del Paese. E fu proprio quella rielezione ritenuta sicura che gli venne impedita dall’attentato di Dallas.
Sebastiano Catalano