Ricorrendo il quarantesimo anniversario della scomparsa del Beato Papa Paolo VI costituisce un impegno assolutamente doveroso e sentito far rivivere gli ultimi giorni di Papa Montini ed evidenziare la paterna attenzione con cui il Santo Padre si dedicò a sostenere la comunità umana, bisognosa e sofferente, contribuì, con l’incessante azione pastorale, ad impedire lo scoppio di nuove, devastanti e sconvolgenti guerre, promosse le condizioni che portarono alla svolta conclusiva, riguardo al conflitto vietnamita.
Tutti noi ricordiamo con commozione profonda la drammatica successione degli avvenimenti, ai primi di Agosto del 1978. Durante i giorni precedenti la Domenica della Trasfigurazione del 6 Agosto 1978, il Papa patì infatti la riacutizzazione proprio in quel periodo di una infiammazione artritica che lo costrinse a sospendere il programma di lavoro che aveva organizzato, pur concedendosi il periodo di riposo estivo, in corso presso la residenza apostolica di Castelgandolfo. Nulla però lasciava intuire la peggiore previsione per la sua salute, pure considerando sempre la cautela, generalmente connessa alle malattie, in persone avanti per età. Alle 18,30 circa del pomeriggio di Domenica 6 Agosto 1978, improvvisamente una crisi cardiaca, connessa ed anzi aggravata da un edema polmonare acuto, rese subito le condizioni di salute di Giovanni Battista Montini estremamente critiche al punto che la fine sopraggiunse addirittura nello spazio di appena tre ore, alle 21,40, circa di quello stesso giorno, ed il fulmineo esito dell’infermità rese del tutto impraticabile ogni tentativo d’intervento dei medici che pure avevano in stretta osservazione le condizioni di salute dell’illustre paziente. L’incredulità, lo sgomento, la generale costernazione e l’universale dolore, s’impadronirono dell’opinione pubblica mondiale; la notizia si diffuse in tutto il Mondo in un baleno, sorprendendo la maggior parte delle persone fuori casa od in viaggio. Rimane intatta – ieri, oggi, sempre – la commozione per il Grande Papa che guidò la Grande Nave della Chiesa in un periodo così complicato e travagliato, sia sul piano interno italiano, attraversato da convulse contestazioni e ribellioni tra i giovani e soprattutto dal terrorismo, sia sul versante estero, contrassegnato dalla tragica guerra in Indocina. Ieri come oggi, ricordiamo il Papa che difese la Fede, contribuì all’apertura della Chiesa al Mondo contemporaneo, iniziata ed avviata da Papa Roncalli, portò avanti il dialogo con le altre religioni e con i non credenti, non contando solo “sulla potestà, illimitata ed indiscussa, ma…sul convincere l’interlocutore dell’assoluta sincerità di chi pretendeva d’introdurlo in un mistero apparentemente così lontano ed indecifrabile, per una mentalità razionale e scientifica”.[1]
Ripercorriamo allora alcuni specifici episodi del Pontificato di Papa Montini, in particolare i momenti del suo impegno contro l’imperversante conflitto vietnamita, avvalendoci di alcuni documenti ufficiali del Concilio, delle Encicliche e di altri atti della S. Sede.
Il 29 Settembre 1963 Papa Montini aprì quindi, con un elevato e dotto intervento introduttivo, il secondo periodo (o seconda sessione) del Concilio Ecumenico Vaticano II, poi concluso il 4 Dicembre 1963, con la promulgazione della Costituzione apostolica sulla liturgia e del Decreto sui Mass Media. Nel corso dell’importante allocuzione ai Padri Conciliari che il Papa stesso definì “preludio al Concilio ed alla missione pontificale” il Capo della Chiesa Cattolica espose in pratica i caratteri del suo apostolato ed enunciò i diversi scopi della sua missione, sacerdotale e papale. In primo luogo rese il pieno omaggio alla memoria del suo predecessore. Giovanni XXIII, a cui era stato legato da lungo periodo di frequentazione ed amicizia ed unì l’inizio del suo impegno apostolico al “vaticinio di un animo profetico sulla situazione di questa nostra epoca”, per indicare la via che il Concilio avrebbe intrapreso, collegandola in modo diretto a quella stessa che il suo predecessore aveva disegnato, come indirizzo per il Concilio, affinché “il sacro deposito della dottrina cristiana fosse custodito ed insegnato in forma più efficace”, la dottrina ecclesiastica fosse “approfondita ed esposta, secondo quanto richiesto dai nostri tempi” e la dottrina cristiana non contasse solo “sull’analisi della verità con la ragione che la fede ha illuminato, ma anche facesse affidamento sulla parola che genera vita ed azione”. L’autorità della Chiesa doveva poi promulgare “documenti positivi e costruttivi” e dimostrare di essere “casa paterna aperta a tutti, la cui indole è prevalentemente pastorale e predisposta verso l’unità di tutti coloro che credono in Cristo”. Il Papa auspicò che il Concilio approfondisse il concetto sulla natura della Chiesa, ma anche il modello che la Chiesa si era data al suo interno; il rinnovamento della Chiesa doveva essere raggiunto per mezzo della santificazione interiore. Ma, come si poteva approdare celermente a questo traguardo? Conferendo ancora maggior peso, nella Chiesa, alla virtù della carità, “per rinnovarsi seriamente e trasformare il mondo intero”. Avviandosi all’epilogo del solenne messaggio di apertura della seconda sessione del Concilio, il Beato Papa Paolo orientò lo sguardo su quello che riteneva dovesse essere l’emblema, il carattere distintivo di tutto il Concilio, la considerazione cioè della carità come la virtù che si fa dono verso gli altri, “una carità che si cura più del bene altrui che del suo proprio, dunque dell’amore universale di Cristo!”. Grazie alla carità era possibile volgere lo sguardo al prossimo, potersi occupare dei diritti dell’uomo, osservare le pesanti persecuzioni a cui venivano sottoposti nel Mondo i fedeli a Cristo ed alla Chiesa, l’intolleranza e l’odio dei regimi politici che non accettavano disparità di opinione (politica o di razza o di religione), il pericolo della diffusione sempre più manifesta dell’incalzante ateismo. Di fronte a queste pericolose realtà, il Papa metteva al centro, come punto di riferimento, sicuro ed inossidabile, la Chiesa ed il Concilio: solido sostegno per tutti, per i poveri, i bisognosi, gli afflitti, per l’umanità sofferente, per gli uomini di cultura, affinché non tralasciassero di aprire il loro animo alla parola di Dio ed alla sua grazia, per i lavoratori, affinché nella dignità del loro lavoro, potessero migliorare la loro condizione sociale, progredire ad una piena vita spirituale, “nella missione di creare un nuovo ordine civile, nel quale gli uomini siano liberi e si sentano fratelli”. Infine il Santo Padre si rivolse ai governanti del Mondo ed alle altre comunità religiose, con espressioni di sincero e cordiale riguardo. Particolarmente importante fu l’esortazione rivolta ai capi delle Nazioni affinché provvedessero ad avere cura delle necessità dei governati, secondo i loro bisogni fondamentali (“pane, istruzione, ordine e dignità”), incoraggiassero la concordia civile nei loro Paesi ed in politica estera provvedessero a tutelare la pace nel Mondo, “con accordi collettivi, secondo la legge della giustizia e dell’amore”. Parve proprio che il Papa avesse voluto esprimere un pieno riconoscimento, un forte incoraggiamento alla politica di coesistenza pacifica allora in piena evoluzione – siamo nell’Autunno del 1963 – che già in quella frazione di anno aveva registrato sviluppi davvero notevoli e ad opera di entrambe le superpotenze. Qualche settimana prima infatti, il 20 Settembre 1963, c’era stato il grande e nobile discorso che il Presidente John Kennedy aveva indirizzato dalla tribuna dell’ONU ed il Sommo Pontefice espresse il proprio consenso a quella linea politica di discussioni ed incontri ai Vertici delle Nazioni, che portava a compromessi ed accordi, con positiva influenza per la composizione di qualunque crisi regionale. La S. Sede aveva compiuto i suoi passi anche per la composizione della crisi più importante del momento, consistente nella presenza di alcune unità di combattenti americani nell’Indocina e da parte statunitense erano stati diramati annunci di stampa sul ritiro dei primi consiglieri militari americani da Saigon, in quanto “non impegnati nei combattimenti”, come da comunicazione informale dello stesso Presidente Kennedy alla Stampa. Nella riunione di Honolulu tra alcuni ministri e consiglieri dell’Amministrazione, datata 20 Novembre 1963, due giorni prima dell’attentato mortale al Presidente americano a Dallas, il numero delle persone che dovevano essere ritirate dal Vietnam, entro la fine del 1963, fu elevato da 1.000 a 1.300, sui 16.000 circa presenti nella zona delle operazioni, nell’Asia meridionale. In effetti l’intendimento di quella modesta partecipazione americana in Vietnam fu quello di mettere in atto la dottrina Kennediana della “credibilità”, al posto della teoria del “domino” di Eisenhower e Foster Dulles, degli anni 50: occorreva fare in modo che la politica estera americana non degenerasse in perdita di fiducia, non provocasse sfiducia nel mondo, per essersi manifestata troppo debole, ovvero per essersi dimostrata troppo dura. Il Vietnam fu nella volontà del Presidente John F. Kennedy un esempio di quella politica estera di equilibrio e di tutela degli interessi degli Stati Uniti e prova dell’uso intelligente ed accorto della loro autorità nella conduzione degli affari mondiali. Poi ci fu il drastico mutamento dell’intervento americano in Vietnam: l’attentato di Dallas che colpì traumaticamente la Nazione ed il Mondo intero, precipitandoli nel lutto e nel dolore, elevò di colpo alla presidenza degli Stati Uniti un uomo che non capiva nulla della filosofia della Nuova Frontiera ed era più che determinato a smantellare ogni elemento di quella precedente organizzazione politica. Il primo obiettivo nel mirino fu proprio il Vietnam ed i primi atti intrapresi dal successore costituzionale di John Kennedy furono proprio il capovolgimento dell’indirizzo precedente degli Stati Uniti per l’Indocina e l’inizio dello spiegamento del vero e proprio corpo di spedizione che già, ad Agosto del “64, poteva contare su 60.000 uomini, pronti a battersi sul terreno. Gli Stati Uniti si preparavano già ad un conflitto di vaste proporzioni, assolutamente ingiustificato ed immotivato e fu proprio il Papa Paolo VI che impegnò sé stesso e la Chiesa, prima per arginare in ogni modo la guerra vietnamita ed evitare che potesse arrivare ad uno scontro tra le Grandi Potenze, e successivamente per incoraggiare e sostenere quel vasto movimento contro la guerra stessa, che sorse spontaneo in tutto il Mondo e che ebbe un peso determinante nella creazione delle condizioni per la fine del conflitto. Esaminiamo questo impegno pastorale del Papa, fatto di continue iniziative, spirituali, morali e politiche, attraverso alcuni atti del Concilio e documenti della S. Sede. La prima significativa ed importante Enciclica del Pontificato Paolino, Ecclesiam Suam, fu promulgata il 6-08-1964. Lungo la linea di apertura della Chiesa al Mondo contemporaneo, avviata già da Papa Giovanni XXIII, lo storico documento propose una importante riflessione sul modo di favorire l’incontro tra la Chiesa e la Società civile. Il carattere dell’Enciclica volle essere un “messaggio fraterno e familiare” ai Padri Conciliari, al fine di dare maggiore gaudio alla comunione di fede e di carità e di dare maggiore chiarezza ad alcuni criteri dottrinali e pratici, per la guida spirituale ed apostolica della gerarchia ecclesiastica. Il primo punto che il Papa propose per l’approfondimento risiedeva nella dottrina del mistero di Dio e nella manifestazione del mistero stesso, per opera della Chiesa. Il secondo aspetto era riposto nella condizione della Chiesa e nel metodo da scegliere, per giungere ad un opportuno rinnovamento. Occorreva perfezionare l’applicazione della Fede per tutti i Cristiani con un sano insegnamento religioso e morale; la Chiesa pur rimanendo al di fuori dell’errore e del male, doveva “non solo adattarsi alle forme di pensiero e di costume che l’ambiente temporale le offre e le impone…ma deve cercare di avvicinarle, purificarle, nobilitarle, vivificarle, santificarle…” esercitando il confronto col Mondo contemporaneo ed assumendo quel ruolo di “perenne esame di vigilanza morale, che il nostro tempo reclama con particolare urgenza e con singolare gravità”. Il Sommo Pontefice si riferiva al metodo con cui il Sinodo Ecumenico doveva provvedere a lavorare per riformare la dottrina ecclesiastica, ponendo molta attenzione ai danni che la concezione relativistica della vita apportava ed apporta al Mondo moderno, sia nel campo culturale, quanto nella vita di relazione. A questo proposito, l’attenzione del Beato Papa Paolo era orientata verso il giusto risalto che la comunità civile doveva rivolgere “ai fenomeni umani, collegati con i fattori economici, sia nel dare alla ricchezza ed al progresso, di cui può essere generatrice, il giusto e spesso severo apprezzamento che le si addice, sia nel dare alla indigenza l’interessamento più sollecito e generoso, sia infine nel desiderare che i beni economici non siano fonte di lotte, di egoismi, di orgoglio, fra gli uomini, ma siano rivolti, per vie di giustizia e di equità, al bene comune, e perciò sempre più provvidamente distribuiti”. In questo caso il Papa fece un solo cenno ad un tema che si rivelò poi fondamentale nel corpo della Populorum Progressio, la grande Enciclica sociale che vide la luce nel 1967, e si trattò di un riferimento assai significativo, sia perché inserito nell’aspetto beni materiali-beni spirituali, più specificatamente evangelico, sia perché si soffermò sull’inclinazione con cui i cattolici devono considerare i beni materiali, come elementi base di un rapporto nuovo col prossimo. Questo elemento base è senza dubbio la carità, la carità verso Dio e verso il prossimo, la carità che ha il primo posto “nella scala dei valori religiosi e morali, non solo nella teorica estimazione, ma altresì nella pratica attuazione della vita cristiana”. È la carità che permette di collocare i beni materiali nel loro esatto spazio, nel contesto di uno spirito proteso, rivolto alla attenzione verso il prossimo, archiviando i sentimenti di possesso, la concezione egocentrica ed egoistica della vita, che tenta d’imporsi nel mondo contemporaneo. Su queste dottrine, su questi insegnamenti, il Beato Papa confidava si dovessero soffermare i Padri riuniti nella Cappella Sistina dialogando col Mondo contemporaneo e diffondendo il messaggio del Vangelo, rivolto a tutti gli uomini, senza alcuna distinzione di razza, ceto sociale e nazionalità. La Chiesa divenga allora dialogo, la religione sia dialogo, tra gli uomini e tra Dio e l’uomo, ed il messaggio abbia i requisiti della chiarezza, della mitezza, della fiducia e della prudenza.
Ed in questo spirito, in cui il dialogo della Chiesa col mondo contemporaneo deve avere un ruolo centrale, occorre porre allora il grande messaggio per la pace che il Sommo Pontefice indirizzò all’umanità, certamente con grande spirito evangelico, ma anche con sommo valore profetico. Il tema del valore della pace mondiale costituì l’essenza del Pontificato di Papa Paolo, e diffuse il suo messaggio di speranza per tutta l’estensione del Magistero papale nell’arco dei quindici anni. L’incombente guerra nel Vietnam faceva già, fin dal 6-08-1964, prevedere alla considerazione del Santo Padre un interessamento assolutamente “estraneo ad ogni considerazione puramente temporale ed alle forme propriamente politiche, ma premuroso di contribuire a procedimenti contrari ad ogni violento e micidiale conflitto” e per promuovere “ogni civile e razionale e pacifico regolamento dei rapporti tra le nazioni…la proclamazione di principi superiori a temperare gli egoismi e le passioni, donde scaturiscono gli scontri bellici, l’armonica convivenza e la fruttuosa collaborazione fra i popoli, e d’intervenire, ove l’opportunità ci sia offerta, per coadiuvare le parti contendenti a onorevoli e fraterne soluzioni”.
Un importante messaggio, che caratterizzerà tutto il Pontificato del Beato Papa, il quale si volle spendere assiduamente per ottenere la pace in Vietnam, con tutti i mezzi a disposizione del Vaticano. Più che un servizio, Papa Paolo considerò questo intervento una missione che riteneva dovuta, sia a motivo della “maturazione delle dottrine da un lato, come delle istituzioni internazionali dall’altro, in virtù della realizzazione del regno di giustizia e di pace, inaugurato dalla venuta di Cristo nel Mondo”. Un chiarissimo impegno alla tutela e difesa della pace mondiale, nel solco del grande insegnamento del predecessore, S. Papa Giovanni, contro l’egoismo, la dominazione e la guerra. Il dialogo era allora ed è ancor oggi, per la pace, il metodo di “regolare i rapporti umani nella nobile luce del linguaggio ragionevole e sincero e come contributo di esperienza e di sapienza”. Il dialogo aperto con questi requisiti, “disinteressato, obbiettivo e leale, non può non condurre alla pace “libera ed onesta”, senza “infingimenti, rivalità, inganni e tradimenti, non può non denunciare come delitto e come rovina, la guerra di aggressione, di conquista o di predominio” non può che riguardare ogni strato o livello sociale, “dai vertici delle Nazioni al corpo sociale, alle basi individuali e familiari”. In cima alle riflessioni che il Santo Padre affidò alla prima Enciclica, c’era senza alcun dubbio la questione del conflitto regionale in Vietnam del Sud, in cui gli americani erano decisi, in ogni caso, ad impegnarsi su vasta scala. Un conflitto che estendendosi, rischiava di coinvolgere le grandi potenze, con inimmaginabili conseguenze.
In modo indiretto – ma non per questo meno inequivocabile e chiaro – il Papa Paolo VI giudicò l’intervento americano in Vietnam, per come si dispiegava già in quell’anno 1964, con bombardamenti aerei ed aumento delle forze di terra, come una guerra di aggressione, distruttiva e barbara, che avrebbe riportato indietro l’orologio della storia alla vecchia Guerra Fredda, riedificando la vecchia politica del “domino”, al posto della dottrina della “credibilità” del Presidente John F. Kennedy, cioè del Capo della Casa Bianca che chiese ripetutamente a Dio di fare in modo che la politica estera degli Stati Uniti fosse sempre all’altezza della forza ma anche, allo stesso tempo, della responsabilità richiesta ad una Grande Potenza. Perché negare al Vietnam la possibilità ed anche la necessità di ritrovare all’interno del Paese quella concordia e quella fiducia che i negoziati tra i vari gruppi etnici avrebbero potuto procurare ed allo stesso tempo la vera pace che Papa Giovanni, attraverso la Pacem in Terris, ed il Presidente John F. Kennedy, con le allocuzioni del suo Ufficio presidenziale, avevano immaginato come possibile e realizzabile in concreto, nei rapporti tra le Nazioni? Infatti, il diritto internazionale vieta tassativamente l’uso della forza nei rapporti internazionali, come soluzione delle controversie internazionali, ma a ben vedere non solo l’uso effettivo della forza, ma anche la minaccia di ricorrere alla forza ed alla violenza. Si può dire che questo principio generale è il fondamento basilare di tutto il diritto internazionale. “Il principio di non uso della forza è norma imperativa di diritto internazionale consuetudinario; l’appartenenza allo ius cogens è stata affermata dalla Commissione di diritto internazionale, dalla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969 e ribadita dalla Corte internazionale di Giustizia nel noto caso Nicaragua, del 1986”.[2] Non soltanto quindi l’art. 2, comma 4 della Carta delle Nazioni Unite vieta, impedisce che le controversie internazionali possano essere risolte con mezzi diversi da quelli pacifici ed in qualsiasi altra maniera, incompatibile con i fini e le funzioni delle Nazioni Unite, ma anche lo stesso Statuto delle Nazioni Unite prevede un vero e proprio sistema di sicurezza collettiva, incardinato nelle delibere del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che infatti analizzano un ventaglio di misure sanzionatorie non consistenti ed anche consistenti nell’uso della forza. La graduazione dell’uso della forza (azioni di polizia internazionale) ed il giudizio (sulla maturazione delle condizioni per farvi ricorso) spetta alle delibere del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e nessun altro Stato (o gruppo di Nazioni) detiene il potere di sostituirsi al Consiglio di Sicurezza, agendo in via autonoma da esso o procedendo per conto proprio. La guerra di aggressione, contemplata da Papa Paolo nel corpo della prima Enciclica, è senza alcun dubbio vietata dal diritto internazionale ed è ritenuta essa stessa un crimine internazionale. Prima della fine dell’anno – il 21 Novembre 1964 – i Padri Conciliari elaborarono ed approvarono la Costituzione dogmatica sulla Chiesa, titolata Lumen Gentium, cioè un mirabile studio dottrinario e teologico e poi anche filosofico, religioso e morale, in cui venne riassunta la funzione prioritaria della Chiesa nel Mondo contemporaneo. La funzione prioritaria della Chiesa era e resta sempre quella di indirizzare tutti gli uomini verso la luce di Cristo e la Chiesa illuminata dalla luce di Cristo costituisce l’insostituibile ponte tra Dio e gli uomini. Il compito della Chiesa è di creare l’unità degli uomini tra loro ed in perfetta unità in Cristo. Missione della Chiesa è la realizzazione del regno di Dio sulla Terra. La Chiesa permette che Gesù Cristo sia presente attraverso le parole del Vangelo e le opere di carità. Dallo sviluppo di questa esaltante dottrina teologica, morale, religiosa e filosofica, emergeva nettamente attraverso la Lumen Gentium che tutti gli uomini, “chiamati a formare il popolo di Dio”, sono strumenti della volontà di Dio, il quale vuole “l’unità di tutti i suoi figli dispersi”, per mezzo del Figlio suo Gesù Cristo. Da questa unità del popolo di Dio scaturiva indefettibilmente che tutti gli uomini sono convocati all’unità del popolo di Dio ed attraverso questa unità di natura spirituale, sono pure esortati alla promozione, alla formazione ed alla edificazione della pace universale sulla Terra. È estremamente importante che la Lumen Gentium abbia solennemente affermato questo principio, valido ieri, negli anni “60 del secolo scorso, ma oggi soprattutto e sempre: tutti i credenti in Cristo, a qualunque fede appartengano, sono investiti di questa grande responsabilità come pure tutti gli uomini, affinché “la grazia di Dio, senza eccezioni, chiami tutti alla salvezza”. Entro, quindi, questo ambito dottrinario, la Costituzione dogmatica costituì un fondamentale punto di riferimento per i successivi futuri approfondimenti, nel solco della grande intuizione giovannea, dell’auspicio cioè che il Concilio fosse certamente il mezzo della promozione dell’unità di tutti i cristiani, ma anche lo strumento ovunque di promozione della Fede in Dio e della sicura costruzione delle vie della Pace universale. In quello stesso anno, mentre la guerra del Vietnam assumeva sempre più contorni di profonda disumanità e di grande sgomento, la Chiesa intervenne con due importanti documenti a dettare all’umanità disorientata e sfiduciata, la via della speranza, del riscatto e del ristabilimento della pace. Il Sommo Pontefice nulla tralasciò per definire e specificare il tema della pace, costantemente presente. Alla guerra del Vietnam dedicò i messaggi annuali per la pace, a decorrere dal 1° Gennaio 1968, tutti fondati sugli essenziali temi del perdono, della giustizia e della pace, ma allo stesso tempo si prodigò con invocazioni, preghiere, esortazioni e suppliche, sul piano spirituale, e proposte di mediazione, sul terreno specifico politico. Sul piano dell’omaggio e della preghiera, uno spazio importante deve occupare l’Enciclica Mense Maio, pubblicata il 29 Aprile 1965. Essa si collocò sempre in quell’essenziale funzione della Chiesa d’intervento pastorale, che fu già di Papa Giovanni e che il Santo e Venerato Papa realizzò in occasione del messaggio per la crisi di Cuba del 1962 e successivamente pose all’attenzione mondiale attraverso le insuperate pagine della Pacem in Terris. Il pensiero del Beato Papa Montini corse quindi all’efficacia di quella supplica, di quella invocazione giovannea (“Supplichiamo tutti i responsabili a non restar sordi all’aspirazione unanime dell’umanità che vuole la pace. Facciano quanto è in loro potere per salvare la pace minacciata. Continuino a promuovere ed a favorire colloqui e trattative a tutti i livelli ed in tutti i tempi, pur di arrestare il pericoloso ricorso alla forza, con tutte le sue tristissime conseguenze, materiali, spirituali e morali. Si cerchi di individuare sulle vie tracciate dal diritto, ogni vero anelito di giustizia e di pace…”), ma aggiunse anche una severa deplorazione e forte riprovazione della politica degli Stati Uniti, i quali avevano abbandonato per strada i chiari e profondi convincimenti morali, che il Presidente John F. Kennedy era riuscito ad imprimere nei suoi atti politici, nei mille giorni di permanenza alla Casa Bianca. Questo tipo di politica dimenticava “il rispetto al carattere sacro ed inviolabile della vita umana, per far spazio a sistemi ed atteggiamenti in aperto contrasto col senso morale e col costume di un popolo civile”, e la dignità umana e la civiltà cristiana non potevano accettare “gli atti di guerriglia, di terrorismo, la presa di ostaggi, le rappresaglie contro le popolazioni inermi, delitti che fanno retrocedere il progresso del senso del giusto e dell’umano…”. L’Enciclica si poneva nel pieno indirizzo di S. Papa Giovanni XXIII, sia ripercorrendo il messaggio per Cuba e ricollocandolo in una questione specifica diversa di guerra già in atto, sia attingendo dall’architrave della Pacem in Terris, per quanto concerneva la rimozione degli ostacoli che venivano posti “all’avvio di negoziati franchi e leali, per un ragionevole accordo, ostacoli reali o psicologici, frapposti ad una sicura e sincera intesa”. Emersero quindi anche da questa Enciclica i capisaldi e gli insegnamenti della Pacem in Terris, segnatamente le parti che sottolineavano il fondamento della Pace, dono di Dio, ottenuto grazie alla intercessione ed alla protezione della Beata Vergine Maria, Regina della Pace. Venivano segnalati anche i principi della Pace, fondata “su basi salde e durevoli della giustizia e dell’amore, giustizia resa al più debole non meno che al più forte, amore che tenga lontano i traviamenti dell’egoismo…”. Ma, il Papa non operò contro la guerra in Vietnam soltanto attraverso gli atti ufficiali del Pontificato, ma si propose per interventi di mediazione tra le parti in causa e sostenne personalmente i tentativi di mediazione, proposti da personalità della Cultura e da altri uomini di Stato ed esponenti di Organi internazionali come per esempio gli interventi del Professor Giorgio La Pira, Sindaco di Firenze, e le altre iniziative che ebbero nel Senatore statunitense per lo Stato di New York, Robert Kennedy, l’esponente democratico più disinteressato e prestigioso, e che però non approdarono in concreto a nulla di rilevante a causa della rigida avversione incontrata presso l’Amministrazione in quel momento al potere a Washington.
“Il desiderio del Papa di coinvolgersi attivamente in una mediazione imparziale fra i belligeranti, la mobilitazione del mondo cattolico italiano, la questione del cattolicesimo vietnamita, ebbero diversi punti di contatto con gli sforzi diplomatici dell’Italia”, non solo quelli di La Pira, ma anche quelli di Fanfani, che facevano sempre riferimento a La Pira.[3]
Il Papa, inutilmente, tentò di mediare col presidente americano, per impedire l’escalation della guerra, senza ottenere risultati concreti.[4]
Ma il Santo Padre, proprio quello stesso giorno, ottenne il più che rilevante riconoscimento per la importantissima allocuzione che indirizzò dalla Tribuna delle Nazioni Unite di New York, ed il discorso di altissimo valore, religioso, morale e storico, resta oggi una delle più grandi orazioni sulla Pace nel Mondo, ed è da analizzare punto per punto.
Il viaggio negli Stati Uniti fu uno dei nove, lunghi pellegrinaggi che il Santo Padre intraprese al di là del Vaticano, consapevole che la Chiesa dovesse dialogare da vicino con i popoli contemporanei e proporre apertamente lo sviluppo della civiltà basata sulla carità e sull’amore. Il discorso all’O.N.U., accolto da applausi scroscianti e da una vera e propria ovazione, aprì la strada al progetto di una società più umana ed ordinata, secondo il diritto. “Le parole di Paolo VI aprivano prospettive alla collaborazione pacifica con tutti i popoli”.[5] In effetti, l’allocuzione – dopo i ringraziamenti di rito al Segretario Generale dell’O.N.U. U Thant ed al Presidente di turno dell’Assemblea Generale, On. le Amintore Fanfani, che avevano invitato il Papa per la ricorrenza del ventesimo anniversario della fondazione delle Nazioni Unite – raggiunse toni di grande elevazione morale. Il Papa intese subito assicurare di essere libero “da ogni sovranità temporale, indipendente da ogni sovranità di questo mondo, libero di esercitare la missione spirituale…di servire con disinteresse, con umiltà ed amore”. Il Santo Padre era consapevole di essere Parroco del Mondo, Pellegrino, inviato a portare la “Buona Novella a tutte le genti, attraverso la Tribuna dell’O.N.U.. Quale messaggio elevato doveva divulgare il Papa all’umanità attraverso quella “altissima Istituzione”?
Papa Paolo volle subito riaffermare il significato del ruolo di altissimo valore morale dell’O.N.U., unica “via obbligata della civiltà moderna e della pace mondiale” e, nell’affermare solennemente questo sacro principio – proclamato dalla Carta istitutiva dell’O.N.U. – lo volle pure motivare, ancorandolo, come dire, ad un “dovere” di rappresentanza che la Chiesa cattolica poteva e doveva anzi esprimere in nome dei morti di tutte le guerre (“che sognavano la concordia e la pace”), dei vivi, che non avrebbero esitato un momento ad esprimere orrore, riprovazione, in caso di nuovi e rinnovati lutti e rovine, determinati da conflitti bellici, dei giovani, che aspiravano giustamente ad un Mondo diverso, più umano e più giusto, dei poveri e dei sofferenti, “anelanti alla giustizia, alla dignità della vita, alla libertà, al benessere ed al progresso”. In nome di tutti i popoli, il Papa lanciò l’appello all’O.N.U., affinché l’importante Organo internazionale fosse il simbolo della speranza, delle giuste, delle esatte aspettative dei popoli al miglioramento del loro status di vita, del progresso verso migliori condizioni sociali, verso il traguardo della riconciliazione universale. Un disegno utopistico od un piano complesso ed ambizioso? Paolo VI non si riferiva ad alcuna delle due ipotesi, allorché si poneva il problema di rendere le Nazioni Unite più “adeguate alle esigenze che la storia del Mondo presenterà”. Già il Presidente John F. Kennedy, il 20 Settembre 1963, aveva esattamente prospettato una riforma dell’Organizzazione internazionale, se necessario, in senso ancora più democratico, esprimendosi nella direzione del pieno sostegno che le N.U. dovevano ricevere indistintamente, da tutti gli Stati col diritto di voto, prospettando così, forse, una definitiva messa in soffitta dell’anacronistico diritto di veto. Forse il Presidente americano, senza entrare espressamente in dettaglio, alluse a questa ipotesi. Neppure il Papa si addentrò a qualcosa di più specifico, ma il problema di una riforma, in senso più democratico, dell’O.N.U., fu – autorevolmente posto e l’O.N.U. doveva dimostrare di essere al passo con i tempi. Certo l’O.N.U. doveva allora (e dovrà garantire sempre) il rispetto del diritto internazionale – e dello Statuto stesso – in nome “del grande principio che i rapporti fra i popoli devono essere regolati dalla ragione, dalla giustizia, dal diritto, dalla trattativa, non dalla forza, non dalla violenza, non dalla guerra, e nemmeno dalla paura, né dall’inganno”, mettendo in primo piano gli accordi ed i patti, in modo che – come aveva già annunciato due anni prima il Presidente Kennedy, “le convenzioni di pace sopravanzassero le invenzioni di guerra”. Poi, via via che l’allocuzione entrò nel dettaglio ed espose tutti i problemi sul tappeto, rivelò la perfetta associazione con la grande Enciclica giovannea; dall’augurio che l’Associazione “instauri una autorità mondiale, capace di agire con efficacia sul piano giuridico e politico”, al principio della reciproca fiducia fra tutte le Nazioni, dal principio di uguaglianza, introdotto dal Presidente Kennedy, nel discorso del 1963, al ripudio dell’orgoglio e dell’egoismo, fonti di tensioni e lotte di prestigio, tutti concetti presenti nella Pacem in Terris, ampiamente dibattuti ed efficacemente approfonditi in essa.
Al centro dell’allocuzione, il Papa pose il problema più pressante: il disarmo. Lo pose non nella forma articolata e ragionata del secondo intervento presidenziale all’O.N.U. (già nel 1961, il Presidente John Kennedy aveva avvertito l’umanità dei gravi pericoli di autoannientamento in una guerra nucleare, a cui faceva riferimento Paolo VI) ma soffermandosi sugli aspetti spirituale e morale. Il Papa si soffermò proprio sul principio del cambiamento dell’approccio al problema: non era possibile costruire la pace in altro modo che modificando il modo di pensare, le idee, lo spirito, facendo cessare gli antagonismi. Per essere giusta e duratura, la pace doveva albergare “nel cuore e nella mente dei popoli”, come conclusivamente aveva sostenuto, nel 1963, di fronte allo stesso uditorio il Presidente americano stesso, a sua volta attingendo anche alle esaltanti pagine della Pacem in Terris. Ed è proprio questo il punto, in cui il Beato Paolo VI infuse all’orazione, di fronte all’Associazione internazionale, gli elevati toni profetici della Pacem in Terris medesima, a cui fece anche riferimento, dato che l’Enciclica costituì il fondamentale baluardo, spirituale, filosofico e morale, di difesa dell’umanità dal flagello delle guerre moderne, di tutte le guerre, e delle guerre termonucleari. Riconoscendo tutti i valori negativi contenuti nello sviluppo della corsa agli armamenti, Paolo VI puntualizzò tutte le motivazioni contro: quelle spirituali, secondo le quali nessun progetto di carità ed amore fra gli uomini sia da ritenersi possibile coltivando disegni di dominazione e di potenza, ed anche perfino in mancanza, in assenza di una vera e propria guerra; quelle economiche e finanziarie e psicologiche, che impedivano ed impediscono sempre l’armonica crescita economica e la lotta contro la fame del Mondo in presenza di altri progetti disumani, di sviluppo di spese per armi di vario genere. L’uditorio del Palazzo di Vetro seguì con elevato interesse il grande ragionamento del Santo Padre, il quale anzi, proprio nel discorso pronunciato nel corso del viaggio apostolico a Bombay, in India, sollevò, per primo, il problema della “devoluzione a beneficio dei Paesi in via di sviluppo di una parte delle economie, realizzabili con la riduzione degli armamenti”. Il Papa investì direttamente l’O.N.U. di questo grande e prestigioso compito, sottolineando proprio che questo dovesse essere il principale scopo per il quale era sorta l’Organizzazione internazionale: accrescere la sicurezza dei popoli, senza sviluppo delle armi, e garantire lo sviluppo della comunità internazionale con un efficiente e pronto programma di assistenza e solidarietà, nel bisogno. Solo in tal modo si poteva sviluppare la pace e rafforzare il vero e principale compito dell’Organizzazione, nobilitando il principio per il quale era stata eretta venti anni prima. Si poteva e si doveva procedere oltre la coesistenza pacifica degli anni di John Kennedy e Nikita Khrushchew e verso la convivenza di tutte le Nazioni, nella solidarietà e nella fraterna collaborazione. A questo punto, Paolo VI usò parole di grande spirito evangelico, riconoscendo all’O.N.U. l’aspetto più significativo, quello cioè di garantire “la speranza migliore del Mondo, riflesso del disegno trascendente ed amoroso di Dio, circa il progresso del consorzio umano sulla terra…il messaggio evangelico da celeste farsi terrestre” ed in questo essenziale tratto è possibile cogliere dal Papa uno dei temi essenziali, che svilupperà, con molta profondità di pensiero, nel 1967, attraverso la “Populorum Progressio, il pensiero rivolto cioè alla tutela della dignità dell’uomo per mezzo della diffusione della cultura e dell’assistenza sanitaria, dello sviluppo della scienza e della tecnica. È utile sottolineare che lo stesso John Kennedy, nel secondo messaggio del Settembre “63, auspicò proprio che il consorzio umano si potesse dedicare, sotto l’egida delle N. U. alla “promozione della libera espressione e del libero commercio delle idee, attraverso migliori possibilità di viaggi e di comunicazioni, e attraverso più vasti scambi di persone, di libri, di radiotrasmissioni”, cioè, attraverso un vasto programma di diffusione della cultura. L’allocuzione si concluse con lo spirituale augurio che gli uomini ritrovassero nuovi stimoli e ragioni di convivenza, verso un nuovo umanesimo, attorno al quale “ripensare in maniera nuova l’uomo, in maniera nuova le vie della storia ed i destini del Mondo, secondo le parole di S. Paolo, – Rivestire l’uomo nuovo…, perché “il pericolo sta nell’uomo, padrone dei più potenti strumenti, atti alla rovina ed alle più alte conquiste”. Solo la fede in Dio poteva e può essere lo strumento di questo cambiamento di rapporti sociali, solo la fede in Dio può indirizzare l’uomo verso la giusta meta ed il corrispondente destino. Concetti espressi – con altre parole ed in altro modo – dal Presidente Kennedy in tre significative occasioni, del suo pur breve mandato alla Casa Bianca, ovvero momenti o tappe della sua attività istituzionale e politica: nel corso del discorso di accettazione della sua candidatura alla presidenza (Los Angeles, Luglio 1960, “Oggi l’uomo tiene nelle sue mani mortali il potere di sterminare l’intera specie”), nell’allocuzione per l’insediamento in carica (Washington, Gennaio 1961, “L’uomo tiene nelle sue mani mortali il potere di abolire ogni forma di miseria umana e ogni forma di vita umana”) nel memorabile indirizzo di saluto agli studenti, giunti alla seduta conclusiva del corso di laurea (Washington, Giugno 1963, “Riprendiamo in esame il nostro stesso atteggiamento, di singoli e di nazione, verso l’Unione Sovietica e verso la pace medesima”), parole sempre attuali ovviamente in tutto il loro significato storico, politico e giuridico. L’allocuzione di fronte alla tribuna dell’O.N.U. di Papa Montini, evidenziò, intanto anche l’importante ispirazione del grande Pontefice, fatta di esortazioni ed espressioni molto elevate e nobili, di evidente ed indiscutibile spessore pedagogico e morale, nelle quali il Beato Papa anticipò i temi che approfondì nella sua più importante Enciclica, la Populorum Progressio, e cioè la difesa della pace e dello sviluppo sostenibile che saranno esaurientemente esposti in quel documento.
Sebastiano Catalano
[1] G. F. Svidercoschi su il Tempo del 7 Agosto 1978, pag. 2.
[2] Ziccardi – Capaldo, Il Nuovo Diritto Internazionale, Giuffrè, 2010, pagg. 279 – 280.
[3] Elisa Giunipero, in Contributo italiano alla pace in Vietnam.
[4] Ennio Caretto, sul Corriere della Sera del 22 Agosto del 2005, pag. 31.
[5] Luigi Bazzoli, Papa Paolo VI, Coged, Rizzoli Editore, 1978, pag. 96.