Lo scorso 19 dicembre, a pochi mesi dalla meta dei cento anni, si è spento il cav. Orazio Vecchio, nato ad Acireale il 13 maggio 1914 e vissuto a Linera, una vera e propria memoria storica del XX secolo.
Egli, infatti, perse all’età di meno di tre anni il padre Giuseppe perché quest’ultimo morì dissanguato nella disfatta di Caporetto durante la prima guerra mondiale. La madre Maria si dimostrò forte e in grado di gestire una famiglia con i suoi cinque figli (4 maschi e una femmina) tra tante difficoltà che riuscì ad attenuare soltanto quando i suoi figli crebbero e poterono aiutarla. Il quartogenito Orazio, dalla mente sveglia e capace di memorizzare ed apprendere con grande velocità, non solo imparò le poesie e i poemetti dei poeti popolari e dei cantastorie dell’epoca, che ricordava e declamava fino a pochi giorni dalla dipartita, ma divenne uno dei migliori innestatori di viti e alberi da frutta, richiestissimo in tutto il territorio catanese. Negli anni 1934-36 svolse il servizio di leva a Zara in Dalmazia e fu trombettiere come bersagliere nel 9° Reggimento. Si sposò nel 1939 con Maria Raciti e nel 1940 nacque il figlio primogenito Giuseppe. Entrata in guerra l’Italia, il 1° giugno 1940 fu richiamato alle armi assieme al fratello Angelo (il primogenito Alfio fu esonerato quale orfano di guerra e l’altro fratello Rosario era malfermo di salute) e inglobato nel XII Corpo d’Armata; fu a Paternò, Raffadali (AG) e Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Riuscì a vedere il figlio con un brevissimo permesso speciale e poi durante qualche mese di congedo.
Richiamato ancora una volta alle armi il 6 agosto 1941, fu incardinato il 23 agosto dello stesso anno nel 10° Reggimento Bersaglieri e il 14 novembre del 1942 dovette imbarcarsi a Palermo per la Tunisia dove in quel periodo c’era lo scontro tra gli Anglo-Americani e gli Italo-Tedeschi e non poté più abbracciare la moglie e il figlioletto, che rimasero da soli durante la guerra e i bombardamenti. Vi lascio immaginare lo stato d’animo di tutti e tre. Sbarcato a Biserta, fu coinvolto con il suo 10° Reggimento, comandato dal tenente Francesco La Fata, nello scontro durissimo tra i due fronti a Kef Zilia il 26 febbraio 1943.
Durante l’attacco contro una munita postazione nemica, La Fata condusse i suoi bersaglieri ai limiti delle postazioni avversarie. Ci fu una strage, lo stesso tenente, ferito e col plotone ridotto ad un piccolo gruppo di eroici bersaglieri, continuò l’assalto all’arma bianca con lancio di bombe a mano, ma fu contrattaccato sul rovescio e sui fianchi fino a quando fu colpito mortalmente di baionetta alla bocca, al petto e alle spalle. Orazio e il fratello Angelo, in mezzo a morti e feriti gravi (il suo racconto di questi momenti tragici lo rimandiamo ad altro scritto), si salvarono miracolosamente in mezzo alle baionette nemiche, ma i bersaglieri superstiti furono presi prigionieri dagli Americani e assieme a tanti altri soldati italiani e tedeschi (ben 4957) furono deportati nel campo di prigionia dell’Utah, Salt Lake City-Ogden, negli Stati Uniti. Orazio con il fratello Angelo rimase lì fino all’inizio del 1946, molti mesi oltre la fine del secondo conflitto mondiale per lungaggini burocratiche e indisponibilità di navi per il rientro in Italia. Dopo circa un anno ai prigionieri italiani fu chiesto dal Comando americano se volessero dissociarsi dal fascismo; Orazio e il fratello si dissociarono e così trascorsero il resto della prigionia in semilibertà potendo anche lavorare all’interno del campo di Ogden. Arrivato a Napoli, tramite ferrovia arrivò fino alla stazione di Guardia Mangano. Giunto a casa e riabbracciati i suoi cari, dovette subito dopo recarsi a Palermo per le formalità del congedo definitivo, che gli fu concesso senza alcun addebito in merito alle circostanze della cattura e al comportamento (ritenuto eccellente) durante la prigionia di guerra. Rientrato accanto alla moglie e al figlio, si adoperò subito per rimettere in sesto le proprietà della famiglia al fine di renderle di nuovo produttive e cominciò a lavorare senza risparmiarsi per rinsaldare l’economia locale facendo valere le proprie competenze professionali, specializzandosi quale innestatore con i corsi della CISL, sindacato a cui aderì e ne fu esponente locale nel settore agricoltura. Riusciva con le sue battute divertenti a tenere allegro il gruppo di lavoro e testimoniava come fosse possibile impiegare le proprie energie per la rinascita economica e morale del dopoguerra.
Nel novembre del 1946 nacque il secondo figlio Giovanni. Tutto sembrava procedere per il meglio quando dovette affrontare una nuova emergenza provocata dal terremoto che colpì Linera il 19 marzo 1952: la sua casa fu tra le prime ad essere ricostruita e fortificata con il suo instancabile impegno. Fu sensibile alla solidarietà sociale e venne nominato componente dell’ECA (Ente Comunale Assistenza) partecipando altresì con fervore alle manifestazioni civili e religiose del suo paese. Fu anche candidato per la Democrazia Cristiana per il Consiglio comunale di Santa Venerina. Per i meriti acquisiti con la sua testimonianza di impegno per la ricostruzione post-bellica e per il rispetto delle istituzioni da sempre manifestato e trasmesso ai suoi figli, con il Decreto 27 dicembre 1987 del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, controfirmato dal Presidente del Consiglio Giovanni Gorìa, concernente gli Ordini Cavallereschi e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 26 luglio 1988, gli fu conferita l’onorificenza dell’ordine “Al merito della Repubblica Italiana”. Nel 2011, infine, fu insignito della croce al merito di guerra 1940-1943 dalla Regione Militare Sud nel corso di una cerimonia svoltasi nell’aula consiliare del Comune di Santa Venerina. Dopo un lunga vecchiaia serena, alimentata dai ricordi e dalla vicinanza di figli, nipoti e pronipoti, si è spento a seguito di una breve malattia. Chiunque lo conobbe ne ammirò la positività del carattere e la disponibilità ad aiutare mettendosi a disposizione di chi ne avesse bisogno.
Giovanni Vecchio