Ripenso ancora alle parole di quel ragazzo che avrebbe rinunciato ben volentieri a uno o due anni della sua giovinezza pur di ritrovare il mondo e la vita, anche se certamente cambiati.
In quest’offerta, così pura, così vera, vi è tutta la forza dell’appello della storia attraverso i drammi dell’esistenza che l’ironia di un altro ragazzo coglie nel suo desiderio di voler augurare ancora e solo: “Buon Natale”.
Sono loro, i ragazzi, a insegnare a vivere quest’anno il Natale a noi, adulti, scandalosamente ansiosi di dimenticare questo tempo per ritornare ad afferrare la vita, come prima, senza che nulla sia mutato. Sono loro a ricordarci che non si deve ritornare al prima. Il tempo del passato inerisce al presente e si apre al futuro: qui si gioca la nostra posizione nel tempo e nello spazio, il nostro essere corporeo che si situa prospetticamente in ogni ora e in ogni dove, tutto abbracciando, senza confusione. Il corpo abita; il corpo cammina; il corpo racconta.
Le parole: le pronunciamo senza ritegno. Magari è così che vanno dette. Eppure, sentiamo che esiste una loro sacralità violata, un silenzio che sarebbe meglio vivere. Le parole di questo tempo. “Rallegrati”; “Siate nella gioia”. Si legano a “Beati”. Lì, in quell’augurio, sta la pienezza della vita che chiede di essere accolta, il tempo del dolore come quello della gioia. E Bonhoeffer canta le parole di questo Lied in prigione: “Durante la notte, durante la notte/ vengono la gioia e il dolore,/ e prima che tu te l’immagini,/ entrambi ti abbandonano,/ e vanno a dire al Signore/ come tu li hai sopportati”.
L’angelo, come in un’esperienza di Chagall (lui e Miriam appartengono al popolo d’Israele), annuncia e poi va via: lascia soli, con una gioia discesa dall’alto che adesso è tutta terrena, una gioia alla quale assentire nel corpo oscuro, doloroso, complesso, pesante da portare e difficile da decifrare degli eventi. “Cala di nuovo il buio. Mi sveglio” (Chagall): la veglia accade quando l’angelo ha portato via l’azzurro sfolgorante che accecava. Inizia il cammino dell’uomo e il trionfo di tutto ciò che ha sapore di terra. Allora, in questa consapevolezza della terra di cui si è impastati e della gioia recata dall’angelo, si inizia ad abitare il mondo e la vita con parole nuove: la povertà, che è stile di vita, la disciplina, che è un limitarsi per il bene proprio e dell’altro, la gratitudine per essere così e in questo tempo.
Poche parole, non illusorie consolazioni che non giovano a chi la vita la respinge, non vani incoraggiamenti che uccidono chi la vita l’ha vista morire. Poche parole, sussurrate, quasi con disagio, in quell’amabile incertezza figlia dell’ascolto.
Carmelo Raspa