Riflessione / Una condanna per il sistema carcerario i tanti detenuti suicidi

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detenuti suicidi

Stiamo vivendo la settimana (forse) più attesa dopo quella del Natale. E’ la settimana di Ferragosto che la nostra società del consumo e della superficialità ha del tutto privato della sua alta valenza simbolica, spirituale e sacra, preparandosi a quella sorta di sfogo sociale che è stato creato nei decenni.

Mentre sessantacinque suicidi di detenuti più sei di agenti di polizia penitenziaria, dall’inizio dell’anno, interrogano la nostra coscienza di cittadini laici, credenti, agnostici che siano, ed esigono una risposta.

Non posso eludere di testimoniare il mio sentire di figlio della Costituzione Repubblicana e della sublime Nuova Novella di un antico Ebreo Palestinese al pensiero di quelle carceri italiane. Che appaiono come quintessenza della negazione di qualsiasi umanità, di qualsiasi diritto naturale. Di qualsiasi fede che non sia ipocrita e sedativa del nostro piu profondo dovere di cristiani e di democratici.

Felice Scuotto
Felice Scuotto, guardia carceraria suicida ad Aversa

Assistiamo alla devastazione di ogni pensiero giuridico, filosofico, positivo, storico, sorvolando bellamente sull’estrema, inammissibile sofferenza dei fratelli che, pur colpevoli di qualsivoglia delitto, restano proprio per questo figli “privilegiati” della Misericordia e della civiltà giuridica.

Con trattamenti umani non ci sarebbero detenuti suicidi

Il Magistero civile della Costituzione non contempla la parola “carcere”. E, circa il debito da pagare, non parla di “pena” ma declina il suo plurale. Proprio perché affida ad esse un contenuto possibile e vario derivante dal principio ineludibile del divieto di trattamenti inumani. E anche l’obbligo (“devono“) della tensione rigorosa alla rieducazione e alla riparazione.La Costituzione italiana

Il Magistero della Chiesa per bocca del pontefice Francesco esprime un severo memento alla “cautela  in poenam“ e al principio sacro che tutta la Giustizia non è tale se non concepita e attuata “pro homine“.

Le due grandi direttrici civili e morali che reggono la nostra società convergono sul primato della persona umana.
“… nessuna pena può mai estinguere un peccato, solo il perdono che viene da Cristo può portare la pace alle coscienze…”. (Papa Francesco discorso alla delegazione dell’associazione internazionale di diritto penale il 23 ottobre 2014).

La pena come rieducazione e riparazione nel rispetto della dignità umana

Non può bastare l’adempimento dell‘opera di misericordia corporale verso i carcerati. Non è solo, nel migliore dei casi, pietà; non è affatto oblìo del delitto procurato. Ma la pena che coincide con la detenzione non può essere una retribuzione, né morale né civile. Ma solo una considerazione sbagliata di “giustizia”. Diciamolo pure chiaramente, può essere definita come la forma di ”vendetta” affidata allo Stato.

Ma sulla vendetta non si costruisce nessuna società umana. Ce lo ha insegnato già l’Illuminismo  con il pensiero profondo di Cesare Beccaria: “… Il fine delle pene non è di fomentare ed affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto già commesso. Le strida di un infelice richiamano forse dal tempo che non ritorna le azioni già consumate? Ma non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali. Dunque quel metodo d’infliggerle deve essere prescelto che, serbata la proporzione, farà una impressione più efficace e più durevole sulle anime degli uomini, la meno tormentosa sul corpo del reo”.

                                                                 Rosario Patanè

 

 

 

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