“La Chiesa non cresce per proselitismo, cresce per attrazione, per testimonianza” , ci ricordava Papa Benedetto XVI. Tale affermazione dovrebbe indurci a confrontarci, seriamente, sulla nostra azione pastorale e sul nostro essere, più o meno, credibili (dando per scontato che credenti, almeno, lo siamo).
Attraiamo con nostre liturgie? Con la nostra catechesi? Con la dimensione della carità?
Testimoniamo con la nostra vita quanto celebriamo e crediamo nella fede?
Comprendo che sono domande inquietanti le quali, innanzitutto e soprattutto, rivolgo a me stesso. Ma, se non ci mettiamo seriamente nella dimensione dell’interrogarci, finiremo con lo scollarci sempre più da ciò che ci circonda. Ed ergiamo muri sempre più alti di separazione fra noi e quanti ci stanno attorno. Ci schieriamo dalla parte di chi vuole avere sempre ragione e, in forza di una consolidata tradizione (forse è meglio dire abitudine), continuiamo a parlare e ad agire, come se nulla attorno a noi sia cambiato e mutato.
La Chiesa cresce? Già ne parlava il Concilio Vaticano II
Quando sessanta anni fa San Giovanni XXIII inaugurava il Concilio Ecumenico Vaticano II (ahimè, come lo abbiamo dimenticato così presto), nella sua magistrale allocuzione di apertura diceva: “Al presente bisogna invece che in questi nostri tempi l’intero insegnamento cristiano sia sottoposto da tutti a nuovo esame, con animo sereno e pacato, senza nulla togliervi, in quella maniera accurata di pensare e di formulare le parole che risalta soprattutto negli atti dei Concili di Trento e Vaticano I.
Occorre che la stessa dottrina sia esaminata più largamente e più a fondo e gli animi ne siano più pienamente imbevuti e informati. Come auspicano ardentemente tutti i sinceri fautori della verità cristiana, cattolica, apostolica. Occorre che questa dottrina certa ed immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi. Altro è infatti il deposito della Fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina. Altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione”.
La Chiesa cresce con una “conversione pastorale”
Custodi ed eredi di un bimillenario passato, facciamo fatica a comprendere che il mutare dei tempi esige da noi quella “conversione pastorale”, che ci porta a comprendere, come scrive il cardinale Matteo Zuppi nell’introduzione ai cantieri di Betania, “perché gli altri non ci ascoltano”. Molte volte reagiamo mettendoci sulle difensive, oppure ci nascondiamo dietro la deludente affermazione “è stato sempre così”.
Testimoniare ed attrarre significa invece mettersi accanto ad ogni uomo, soprattutto quello ferito, malato, distante e raccontare con la nostra vita (perché a parole lo sappiamo fare tutti) quell’incontro che abbiamo fatto con Gesù di Nazareth. Significa suscitare domande inquietanti circa il nostro essere, più che il nostro apparire.
Oggi, grazie a Dio, abbiamo deposto i “segni del potere” con cui, nei secoli, abbiamo inopportunamente ornato la Chiesa. Ma ci resta il “potere dei segni”, quello vero che trova nel Vangelo le sue fondamenta. Questi segni, siamo chiamati ad usare per attrarre e testimoniare “La gioia del Vangelo [che] riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia” (Papa Francesco, Evangeli Gaudium, 1).
Più che insegnare, attraverso enunciati dottrinali e piani pastorali strategici, scegliamo la via della semplicità evangelica. Ricordando che “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni” (S. Paolo VI).
Don Roberto Strano