Domenica sera, nel cortile dell’azione cattolica, insieme ai ragazzi, giovani e adulti, vedevamo la partita per la finale dei campionati europei tra Inghilterra e Italia. L’adrenalina era alle stelle. Quei 120 minuti più i calci di rigore ci hanno “stremati” prima di farci esultare.
Rientrato a casa, forse per la gioia della vittoria italiana, ho faticato a prendere sonno e mi sono lasciato prendere da pensieri che accomunavano l’esperienza della partita con quella della vita. Mi è saltata subito in mente una frase: “Con il talento si vincono le partite, ma è con il lavoro di squadra e l’intelligenza che si vincono i campionati” (Michael Jordan). Si, la storia dirà che abbiamo vinto grazie al goal di Bonucci che ci ha portati al pareggio e alla grande bravura di Donnarumma che ha parato un rigore decisivo. Ma a vincere è stata tutta la squadra italiana, coesa e compatta.
Per vincere bisogna fare squadra
Nella vita non si è mai camminatori solitari, Thomas Merton scrive un libro per dimostrare che “nessun uomo è un’isola, ma parte di tutta una umanità”. Per vincere, in qualsiasi ambito, bisogna essere squadra, dove l’apporto intelligente di ognuno conduce alla vittoria.
Queste considerazioni mi hanno portato a riflettere sulla sinodalità, di cui oggi – grazie a Papa Francesco che ha imposto alla Chiesa di guardare e operare in questa prospettiva – tanto si parla. Dobbiamo chiederci: ci crediamo davvero? Siamo disposti a lasciare il nostro grado di Generale e non considerare più gli altri semplici soldatini da usare a piacimento? Siamo pronti a metterci in ascolto di Dio, della storia, degli altri, per discernere le urgenze e le necessità del momento presente?
Il lavoro di squadra non sminuisce certo il prestigio e l’autorità del tecnico, anzi la rafforza. Perché tutti guardano nella stessa direzione, tutti aspirano al raggiungimento dell’obiettivo finale. Che nel caso di domenica scorsa era quella coppa che con orgoglio, i nostri giocatori, hanno portato a Roma.
Camminare insieme come pellegrini
Se vogliamo dare un futuro alle nostre comunità diocesane e parrocchiali, non abbiamo altra via se non quella del camminare insieme. Non come girovaghi, bensì come pellegrini. Dobbiamo superare l’umiliante frase: “si è fatto sempre così” e guardare con fiducia a ciò “che lo Spirito dice alla Chiesa” (Ap 2,7).
Non possiamo più pensare “di rimanere sempre sani in un mondo malato” (Papa Francesco 27.3.2020). Dobbiamo però seriamente interrogarci se di questa malattia siamo vittime o cause.
La vittoria agli europei di calcio da parte dell’Italia ci insegni il lavoro di squadra. Ci ricordi “che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme” (Papa Francesco, ibidem).
Trovare le parole giuste
La posta in gioco è alta, ne va di mezzo il nostro futuro. A meno che, non vogliamo che “Un giorno ci sveglieremo e ci ritroveremo soli nelle nostre chiese. Con i tabernacoli vuoti delle nostre parole incapaci di parlare all’uomo. Inadatte a guarire le sue ferite, inadeguate ad indicare la direzione al suo pellegrinare.
In quel giorno le nostre strutture vuote ci urleranno la fuga di Colui che avevamo preteso di racchiudere nei nostri sacri recinti e nei nostri inviolabili documenti, sicuri che non sarebbe mai andato oltre. E ci scopriremo atei, cioè “senza Dio”. Poiché nonostante credevamo alla sua esistenza, a causa del nostro essere più a servizio delle nostre strutture, delle nostre idee, delle nostre organizzazioni che della sua libertà, abbiamo preteso di insegnargli il mestiere di Dio, gli abbiamo chiesto di seguire Lui noi e non noi Lui” (Don Gennaro Pagano).
Don Roberto Strano