Il messaggio della Dichiarazione comune firmata a Lesbo – insieme ad altri messaggi e segnali simili, partiti in molti modi da tutte le denominazioni cristiane ortodosse, protestanti e cattoliche – ha anche una valenza politica: perché vorrebbe aiutare il Vecchio Continente a rinnovarsi, a non ripetere gli errori che altri hanno già commesso in un passato fatto di chiusure reciproche, di scomuniche, di autoreferenzialità portata all’estremo.
Nell’immaginario di ogni italiano, Lampedusa ha un significato inequivocabile. Lampedusa significa barconi, profughi, migliaia di morti in mare, emergenza; ma Lampedusa significa anche accoglienza, altruismo, generosità che a volte rasenta l’eroismo, pur mescolata alla comprensibile preoccupazione e all’incertezza che una simile situazione può generare. E poi Lampedusa significa volontà di darsi da fare in assoluta concretezza, mentre altri discutono, parlano, si confrontano, cercano soluzioni politiche e diplomatiche che pur ci devono essere, ma che stentano a sorgere. Mentre invece altrove sorgono ancora muri: di precauzione, ci viene detto, ma il messaggio più chiaro che un muro veicola è indubbiamente quello della paura di chi lo costruisce e della vergogna di chi non lo vorrebbe. Ma c’è di più: se Lampedusa costituisce una sorta di “biglietto da visita” per l’Italia, dato dalla sua posizione geografica ma soprattutto dato da chi a Lampedusa ci vive o ci è arrivato con un preciso intento di accoglienza, a me, italiano nato e cresciuto agli antipodi di Lampedusa e del Mediterraneo, non resta che dire che sono orgoglioso di essere italiano!
A tutto ciò che Lampedusa significa, da qualche tempo la cronaca – in gran parte ancora una volta cronaca nera, purtroppo – sta affiancando il nome di Lesbo.
E si ripetono cose già viste: morti in mare, drammi indicibili, volti esausti, ma di nuovo anche accoglienza, generosità, maniche rimboccate nella volontà di far qualcosa di concreto.
E tutto ciò in una Grecia che non sta attraversando il periodo più felice della sua economia, ma che nonostante ciò sta mostrando un volto ammirabile di solidarietà e di carità, pur accanto a inevitabili segnali di preoccupazione e di protesta. Cosa sottolineata anche oggi (16 aprile) a Lesbo, alle porte della Grecia e dell’Europa, quando papa Francesco, il patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo I, e l’arcivescovo di Atene, Ieronymos II, hanno manifestato solidarietà al popolo greco: un popolo che sta facendo conoscere al mondo molti “custodi di umanità”, come si è espresso il Papa nel salutare le autorità e la cittadinanza, “perché vi prendete teneramente cura della carne di Cristo, che soffre nel più piccolo fratello affamato e forestiero, e che voi avete accolto”, riferendosi così al famoso “giudizio universale” del capitolo 25 di Matteo: “…ero forestiero, mi avete accolto…”.
Poco dopo la sua elezione, il vescovo di Roma, papa Francesco, ha voluto approdare a Lampedusa: quasi a dire “ci sono anch’io, come vescovo, ma prima di tutto come cristiano” e in fondo, aggiungerei, come uomo, fratello di quei tanti uomini che a Lampedusa incrociano le loro storie e le loro attese.
Ora Francesco è approdato a Lesbo, a portare di nuovo un segno di vicinanza, di apprezzamento, di approvazione, e ci è arrivato con Bartolomeo I e con Ieronymos II. Indipendentemente dal voler sapere chi ha preso l’iniziativa, cosa che in un certo senso interessa davvero poco, vale la pena piuttosto interrogarci sul perché di un viaggio “a tre”.
Perché l’unione fa la forza? O perché così il vescovo cattolico e i due vescovi ortodossi si fanno coraggio a vicenda? No, decisamente no.
Facendo così, Bartolomeo, Francesco e Ieronymos intendono dire con estrema chiarezza all’Europa e al mondo intero che
il “problema” dei profughi va affrontato insieme:
“Facciamo appello alla comunità internazionale perché risponda con coraggio, affrontando questa enorme crisi umanitaria e le cause ad essa soggiacenti, mediante iniziative diplomatiche, politiche e caritative e attraverso sforzi congiunti, sia in Medio Oriente sia in Europa”, hanno dichiarato nel testo firmato insieme.
Contrariamente a quanto la nostra vecchia Europa sta (o non sta?…) facendo, quasi intrappolata da divisioni interne, da contrasti che si credevano superati e che invece riaffiorano e parlano ancora con forza, contrariamente a questa incapacità di generare un pensiero e un’azione congiunta, con questo loro gesto comune i tre vescovi vogliono dire che le Chiese invece ci provano.
Non si tratta di rivendicare un primato di azione delle Chiese sui governi nazionali o sul governo europeo: si tratta piuttosto di affermare che
essere cristiani significa avere gli occhi aperti, cercare soluzioni immediate e concrete, saper fare spazio all’altro e farlo nel proprio cuore oltre che nelle strutture di accoglienza.
L’hanno firmato i tre vescovi, riconsegnando a ciascuno di noi una convinzione che già un documento ecumenico d’inizio millennio affermava, quasi con spirito profetico: “Riconciliazione [per i cristiani] significa promuovere la giustizia sociale all’interno di un popolo e tra tutti i popoli […]. Vogliamo contribuire insieme affinché venga concessa un’accoglienza umana e dignitosa a donne e uomini migranti, ai profughi e a chi cerca asilo in Europa” (un passaggio della “Charta Oecumenica” del 2001, ripreso nella Dichiarazione congiunta).
E tuttavia, oltre alle parole e ai contenuti, pur di tutto rispetto, la Dichiarazione che i tre hanno firmato insieme a Lesbo ci consegna
un messaggio di una grande attualità anche politica:
nel corso dei secoli della nostra storia, come cristiani abbiamo spesso costruito muri tra noi, ma finalmente abbiamo capito che essi sono il segno più tangibile del fallimento della nostra testimonianza di discepoli del Risorto. Ci è costato molta fatica e ancora oggi il cammino comune verso una comunione sempre più concreta tra le Chiese cristiane non è privo di difficoltà; ma la Chiesa cattolica, le Chiese dell’Ortodossia più antiche e più recenti e tutte le Chiese nate in modi diversi dalla Riforma di Lutero hanno capito che
costruire muri non serve a niente, e lo vogliono dire con forza a chi invece si ostina ancora a pensare che proprio essi siano la soluzione.
Ecco perché il messaggio della Dichiarazione comune firmata a Lesbo – insieme ad altri messaggi e segnali simili, partiti in molti modi da tutte le denominazioni cristiane ortodosse, protestanti e cattoliche – ha anche una valenza politica: perché vorrebbe aiutare il Vecchio Continente a rinnovarsi, a non ripetere gli errori che altri hanno già commesso in un passato fatto di chiusure reciproche, di scomuniche, di autoreferenzialità portata all’estremo; a Lesbo il patriarca di Costantinopoli, il vescovo di Roma e l’arcivescovo di Atene invitano tutti a ritrovare invece quello stile di apertura, di confronto, di dialogo che caratterizza la democrazia autentica. Che, guarda caso, è nata proprio in Grecia, e che da Lesbo, da Lampedusa e da molti altri luoghi simbolo dell’accoglienza può ancora rinascere…
Cristiano Bettega
direttore dell’Ufficio nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Cei