Con la nuova edizione italiana del Messale Romano, approvata dalla CEI lo scorso 15 novembre e in attesa del placet della Sede Apostolica, verrà modificata anche la penultima espressione del Padre Nostro; non si dirà più “non ci indurre in tentazione”, ma “non abbandonarci alla tentazione”. L’esigenza di una chiarificazione linguistica del testo della preghiera del Signore nasce, stando alle dichiarazioni dei vescovi italiani, dall’esigenza di voler “migliorare il testo liturgico sotto il profilo teologico e stilistico”.
Sì, di testo liturgico si tratta; infatti la nuova traduzione del testo evangelico di Matteo 6,13 era già stata messa appunto nell’edizione della Bibbia CEI del 2008. L’esigenza che questa dizione entrasse nel vissuto liturgico, quindi orante della Comunità cristiana, era ormai evidente e impellente. Ma torniamo alla radice del problema: la formula comune e ancora corrente nasce dalla traduzione latina della Bibbia (vulgata) recante “ne nos inducas in tentationem”, che letteralmente vuol dire “non portarci dentro la tentazione”. Al di là della chiarezza filologica della traduzione dell’espressione, che nell’originale greco suona “καὶ μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν”, bisogna ammettere la congruità del tentativo dei vescovi di voler riportare le parole della Preghiera al loro significato più immediatamente fruibile dalla maggior parte dei fedeli. In effetti la traduzione del “non ci indurre” potrebbe fraintendere il ruolo di Dio come colui che tenta i suoi figli e al quale questi devono disperatamente rivolgersi perchè ciò non avvenga. Andrebbe compromessa l’idea stessa di paternità alla quale Gesù fa spesso riferimento (vd. Lc 15,11-32 oppure Gv 17,25). Un’iniziativa importante dunque, per la quale auspichiamo possa diventare la cornice che definisce un orizzonte di riforma ancora più profondo.
Francesco Pio Leonardi