Riforma del lavoro: più lima che falce?

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Sulla riforma del lavoro il governo Monti ha fatto un… ottimo lavoro, nella forma e nella sostanza.

Nella forma: l’esecutivo ha discusso con competenza (il ministro Fornero non è l’ultima arrivata in materia) e pazienza con le cosiddette parti sociali, e ha cercato la maggior convergenza possibile sulle sue proposte; quindi ha realizzato una bozza di riforma articolata e tutto sommato completa, per passarla all’esame del Parlamento senza l’errata scorciatoia del decreto legge e senza sottostare ai niet di questo o quello.

Saranno le forze politiche ora a dover valutare punto per punto quanto deciso dall’esecutivo, limando o aggiungendo o addirittura stralciando. Cioè dando la giusta valenza politica a questo forte cambiamento delle regole, in un ambito sociale ed economico così delicato qual è il lavoro. Prevediamo più un’azione di lima, che di falce da parte del Parlamento: è convenienza di tutti arrivare ad un cambiamento articolato e convincente.

Nella sostanza: soffermiamoci sul punto più caldo, sullo scoglio addosso al quale si sono scontrate le proposte di riforma dell’ultimo decennio. Stiamo parlando dei licenziamenti, ed in particolare di quell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori che prevede il reintegro nel posto di lavoro per il lavoratore (di azienda con più di 15 dipendenti) licenziato senza “giusta causa”.

Orbene, dopo alcuni decenni di vita sparisce quel concetto di giusta causa che veniva variamente interpretata dal giudice del lavoro caso per caso; quasi sempre ravvisandone la mancanza.

Adesso – e per tutti – la questione cambia così: l’azienda potrà licenziare il lavoratore singolo per motivi economici. Se il giudice, interpellato, non ravviserà motivazioni economiche valide, seguirà un indennizzo economico, cioè una serie di mensilità – da15 a27 – pagate al lavoratore come “risarcimento” per il licenziamento ingiusto. Cioè quello che è sempre accaduto nelle aziende con meno di 15 dipendenti.

Rimane nullo, quindi inefficace, il licenziamento discriminatorio (per razza, sesso, convinzioni religiose, ecc.). Anzi la tutela del reintegro è stata estesa pure alle aziende con meno di 15 dipendenti, quindi per tutti i lavoratori assunti a tempo indeterminato. Infine, è previsto il licenziamento per motivi disciplinari: ci sarà l’indennizzo economico, il reintegro solo qualora il giudice ritenga gravemente illegittimi i motivi che hanno portato alla chiusura del rapporto di lavoro (qui si riscontrerà spesso il nodo dell’attività sindacale in azienda, non gradita all’azienda stessa).

Cade così un piccolo tabù, dietro al quale tra l’altro si mascherava pure molta precarietà lavorativa: la paura di “sposarsi a vita” con il dipendente sbagliato ha spinto spesso i datori di lavoro a non procedere verso assunzioni che ora, si spera, saranno molto più frequenti. Tra l’altro il governo ha previsto un bel giro di vite a certe forme di flessibilità (meglio: di sfruttamento e di precarizzazione), a cominciare dai contratti a tempo determinato: non più di 36 mesi, e costeranno giustamente di più. Il punto, qui come in altri casi (false partite Iva) è quello di togliere la maschera a rapporti di lavoro subordinati di fatto, ma “flessibili” nelle tutele e nei pagamenti.

Nel pacchetto-lavoro c’è ancora molto altro: a cominciare dall’Aspi, l’assicurazione sociale per l’impiego che diventerà il caposaldo per i cosiddetti ammortizzatori sociali, altro argomento in via di completa ridefinizione.

Quindi si cambia. Come ha annunciato il ministro Elsa Fornero, dovrà essere più facile entrare nel mondo del lavoro, e meno difficile uscirne però con maggiori tutele per gli “espulsi”. Era quello che ci chiedevano le istituzioni politico-finanziarie europee nella famosa lettera di agosto 2011, quando ci dettarono le linee (suggerimenti, diciamo; molti usciti dalla penna di Mario Draghi) per non finire alla deriva. Il mondo intero è rimasto a bocca aperta nel constatare la rapidità del nostro cambiamento. Figuriamoci noi italiani.

Ora la palla passa al Parlamento.

Nicola Salvagnin