Le novità: anzitutto la “governance” interna, implementata con un consiglio di amministrazione più pesato a livello istituzionale, con 7 consiglieri (2 in meno). Due scelti dalla Camera, 2 dal Senato, 2 dal Governo e 1 dai lavoratori dell’azienda. L’amministratore delegato nominerà i direttori di rete, di testata, di canale e i dirigenti di seconda fascia. In una parola: tutto l’organigramma che conta.
Una “governance” più snella, 7 membri del consiglio al posto degli attuali 9, con la novità dell’amministratore delegato al posto del direttore generale, indicato dal governo e dotato di poteri più ampi, con diritto di voto in consiglio di amministrazione: sono queste le novità salienti della riforma Rai, votata in Senato il 30 luglio e che passerà alla Camera i primi di agosto prima del varo definitivo. La riforma c’è ma rimarrà come “surgelata” per un lungo periodo (sembra fino al 2018), in quanto per evitare un vuoto di potere troppo lungo ai vertici, nei primi giorni di agosto si prevede una riunione della commissione bicamerale di vigilanza Rai durante la quale si procederà comunque alla nomina dei membri del consiglio di amministrazione, secondo le vecchie norme della legge cosiddetta “Gasparri”. In pratica, mentre si sta giungendo al varo definitivo della Rai “riformata”, si procederà comunque alle nomine apicali con i vecchi regolamenti, quelli che proprio la riforma voluta dal governo Renzi intendeva superare. Paradossi all’italiana! Lo stesso primo ministro ha assicurato che entro la metà della prima settimana di agosto (pare mercoledì 5) verranno annunciati i nomi del nuovo presidente e del nuovo direttore generale. Saranno “i nomi più autorevoli e competenti”, ha aggiunto e quindi non resta che attendere. Con la riforma in arrivo, la Rai, dopo 61 anni dalla sua fondazione, potrebbe divenire un’azienda più moderna. Il fulcro della riforma, infatti, si trova nella figura dell’ “amministratore delegato” (il “Marchionne” della Rai, per intenderci) dotato di ampi poteri, cosa che finora non c’era e anzi esisteva il contrario: i veti incrociati.
Le novità del Cda e dell’amministratore delegato. Vediamo quali saranno le novità della riforma. Anzitutto la “governance” interna, implementata con un consiglio di amministrazione più pesato a livello istituzionale: mentre finora a “viale Mazzini” (così viene definita spesso la Rai per la sua storica sede romana, quella col cavallo morente) i consiglieri erano 9, di cui 7 eletti dalla commissione parlamentare di vigilanza e 2 dal ministero del Tesoro, una volta varata la riforma si scenderà a 7: due scelti dalla Camera, 2 dal Senato, 2 dal Governo e 1 dai lavoratori dell’azienda stessa. Naturalmente il periodo transitorio da qui – pare al 2018 – vedrà ancora un consiglio fatto alla vecchia maniera, cioè con 9 consiglieri. Poi l’amministratore delegato, figura come si è detto nuova di zecca per la Rai, il quale avrà poteri più ampi del suo predecessore (il direttore generale). Anche in questo caso, bisogna precisare che il direttore generale che verrà indicato da Renzi ai primi di agosto mantiene la definizione funzionale, ma di fatto avrà poteri allargati, pressoché simili a quelli dell’amministratore delegato prevista dalla riforma. Essere Ad (amministratore delegato) della nuova Rai vorrà dire poter nominare i direttori di rete, di testata, di canale e i dirigenti di seconda fascia. In una parola: tutto l’organigramma che conta.
Vertici “licenziabili” ma più forte controllo pubblico. Sia l’amministratore delegato sia i consiglieri saranno licenziabili, potranno essere sfiduciati, il primo da parte dello stesso consiglio di amministrazione, i secondi invece da parte dei soci, in pratica il ministero dell’economia e la Siae. La Rai entra in qualche modo, seppure mantenendo il suo statuto di società pubblica sottoposta al controllo diretto dello Stato, nella logica delle società private, dove le responsabilità dei vertici aziendali sono tracciabili, valutabili, e anche “sanzionabili” se è il caso. Invece dei sontuosi rimborsi e buonuscite elargite in passato a quelli che venivano chiamati “boiardi di Stato”, con la riforma si prevede soltanto un mini-rimborso pari a tre-dodicesimi del compenso annuo per chi se ne va o viene “cacciato”. La Rai, del resto, con la riforma rimarrà solidamente in mani pubbliche. Infatti si prevede la possibilità di una sua “privatizzazione”, ma limitata ad un massimo del 10 per cento del capitale. Sarà inoltre sempre il governo ad adottare quanto prima un nuovo “testo unico della radiotelevisione”, già previsto dalla precedente legge di riforma radio-televisiva (la già citata “Gasparri” del 2004) per il riordino e la semplificazione delle disposizioni vigenti, soprattutto per quanto riguarda i doveri del servizio pubblico (canone compreso) e le nuove piattaforme tecnologiche.
Confronto più acceso nel sistema radiotelevisivo? Tra le considerazioni sulla riforma, sul piano politico bisogna riconoscere un processo di semplificazione della governance Rai, accentuandone tuttavia il controllo da parte dell’esecutivo. Sul piano economico, l’arrivo di un “super-manager” dovrebbe voler dire maggiore velocità nella gestione delle risorse interne, dalle strutture alle sedi, dal personale alle produzioni, con l’attesa di risparmi consistenti. Alla Rai lavorano 11.600 dipendenti contro i 6.150 di Mediaset, sua diretta concorrente. Il fatturato Rai è di 2,7 miliardi contro i 3,4 di Mediaset, il risultato operativo delle reti di Stato è di 66 milioni contro gli oltre 200 del “Biscione”, l’utile netto è di 5 milioni per la società pubblica contro i 23,7 della holding berlusconiana. Insomma, la Rai aveva e ha bisogno di una iniezione di “managerialità” e forse la riforma qualcosa produrrà. Benché gli italiani vogliano bene a “mamma Rai”, che li accompagna da 60 anni, in molti la percepiscono come un “carrozzone” sonnacchioso, spendaccione e controllata dai partiti. Vedremo se le cose cambieranno, a riforma avviata e più ancora quando sarà a regime.
Luigi Crimella