Il supermartedì del 5 marzo – con elezioni “Primarie” celebrate in ben 14 Stati contemporaneamente – ed il successivo martedì 12 marzo 2024 – con altre consultazioni elettorali in Georgia e Mississippi – hanno praticamente dissipato i residui dubbi sulla reale forza politica dei due maggiori candidati alla più elevata carica degli Stati Uniti. Per la verità, più del presidente in carica, Joe Biden, praticamente privo di avversari, l’argomento di dibattito politico più importante, che ha avvantaggiato Donald Trump, ha coinciso col ritiro dalla corsa alla nomination dell’avversaria di Partito Nikki Haley.
Trump e Biden senza avversari nei loro partiti
Pertanto, a questo punto, i due uomini più rappresentativi in lizza hanno ipotecato le rispettive nomination. Con diversi mesi di anticipo, rispetto alle scadenze normali. Il presidente in carica e l’aspirante repubblicano hanno dunque superato la soglia minima prevista per la candidatura alla Casa Bianca. Il capo dell’Esecutivo può attualmente contare sul consenso della metà più uno dei delegati avendo già raggiunto la quota di 2099 consensi. Ben superiore alla metà più uno (3.934/2+1). L’ex presidente Donald Trump, da parte sua, ha già messo in cassaforte la considerevole cifra di 1228 voti del GOP. Che è già superiore al minimo stabilito di 1215, derivante dal calcolo di 2429:2+1.
Via libera della Corte Suprema federale a Trump
Un altro avvenimento significativo e molto importante ha attratto allo stesso tempo l’attenzione dei riflettori dei commentatori politici. Avvenimento che avrà naturalmente evidenti ripercussioni sull’ulteriore corso della campagna elettorale statunitense. Se, infatti, per Joe Biden, capo della Casa Bianca in carica, le consultazioni “Primarie” rivestono un ruolo tutto sommato più formale che sostanziale, – in quanto sembra evidente che al momento la sua leadership all’interno dei Democratici non sia seriamente messa in discussione da alcuno -, ben diversa è la condizione di Donald Trump.
L’ex presidente, insieme ai risultati positivi messi in carniere, potrà contare anche sulla favorevole decisione della Corte Suprema Federale di Washington. Questa ha deciso a suo favore un importante quesito di diritto che altrimenti lo avrebbe escluso irrimediabilmente dalla partecipazione alla corsa alla Casa Bianca.
Tutto questo ha conferito all’ex presidente quella forte iniezione di fiducia necessaria affinché l’avversario di Joe Biden creda fino in fondo nella vittoria finale. La fiducia, che gli deriva dal morale elevato e dall’effetto della sentenza della Corte Suprema Federale, gli dà una forte spinta psicologica. Un fatto importante che fa ben sperare per il futuro della contesa per la Casa Bianca.
Possibile l’eleggibilità di Donald Trump a Presidente
I primi giorni di marzo si sono dunque rivelati estremamente significativi ed assai importanti per l’ex capo dell’Esecutivo. Sono giunti contemporaneamente: la vittoria certificata dai consensi elettorali delle “Primarie” ed il successo, altrettanto prezioso, giunto quasi parallelamente, giustificato e sanzionato dalla Massima giurisdizione dello Stato Federale. Vediamo allora, più approfonditamente, di cosa si è trattato.
Un precedente giurisprudenziale importantissimo
Occorre prima chiarire che nel titolo del giudizio (Trump C/ Stato del Colorado), la Corte Suprema Federale ha tecnicamente deliberato come giudice di legittimità di ultima istanza. Cioè la Corte è intervenuta dopo il lungo iter del processo che si era via via dilungato attraverso le Corti giudicanti dello Stato del Colorado, fino alla Corte Suprema stessa dello Stato Americano.
Lo spessore della sentenza della Corte Suprema Federale è tecnicamente di altissimo pregio. Infatti, la Corte di Washington, era intanto pienamente competente a decidere il caso in trattazione. Piena competenza per diversi ed importanti motivi. La Corte Suprema infatti è chiamata a dover valutare e giudicare proprio i casi – come quest’ultimo sottoposto alla sua trattazione – in cui deve pronunciarsi quando il diritto federale è violato. Ed anche quando il diritto statale stesso, violato, ha ripercussioni sul diritto federale. Deve giudicare poi anche i casi in cui parte in causa sia un dirigente pubblico (ambasciatore, ministro, console).
È dunque evidente che estensivamente, a maggior ragione, la Corte ha il compito di decidere naturalmente anche quando parte in causa sia ovviamente il capo dell’Esecutivo statunitense, essendo il funzionario dello Stato più alto in grado.
Inoltre, parte in causa nel caso era lo Stato del Colorado e la Corte deve decidere proprio nei casi in cui uno Stato è una delle parti antagoniste del processo che viene sottoposto al suo esame. Però è opportuno precisare che per “controversie in cui uno Stato è parte”, devono intendersi tutte le controversie tra gli Stati Uniti ed uno Stato federato. E tutte le azioni od i procedimenti da parte di uno Stato contro i cittadini di un altro Stato.
Poi ancora, la Corte Suprema Federale è competente ad intervenire sui giudizi o sui decreti definitivi, che emette il più alto giudice di uno Stato federato. Si può dunque presentare ricorso alla Corte Suprema da un Tribunale di uno Stato federato inferiore se la più alta Corte dello Stato federato ha rifiutato di esaminare un appello. O si è dichiarata incompetente ad esaminare l’appello.
I motivi della decisione della Corte Suprema
Quindi, in base a tutte le premesse, la Corte Suprema americana ha ben deliberato sul caso sottoposto al suo esame dagli avvocati di Donald Trump. Lo ha infatti dichiarato eleggibile in Colorado, con un verdetto votato pure all’unanimità dei togati. I nove componenti hanno accolto il ricorso dell’ex capo della Casa Bianca sovvertendo la decisione della Corte Suprema del Colorado che lo aveva escluso dalle elezioni per il suo, peraltro presunto e neppure evidente ruolo nell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021.
È una decisione che farà storia negli annali della Corte Suprema di Washington. Il 14° emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti vieta la partecipazione alle cariche pubbliche a tutti i funzionari coinvolti in insurrezioni contro la Costituzione degli Stati Uniti. I giudici non hanno giudicato nel merito dell’accusa intentata contro Trump quando era nelle funzioni della massima carica della Nazione.
Si sono però limitati a rimarcare l’importante principio costituzionale che tocca al Congresso Americano e non ai singoli Stati la competenza per rimuovere un candidato presidenziale in base alla clausola d’insurrezione contro la Costituzione degli Stati Uniti.
Una decisione che farà storia
Diversamente, hanno sentenziato i togati di Washington, si arriverebbe al caos. Con decisioni diverse tra uno Stato e l’altro. E con tempi per decidere diversi tra uno Stato e l’altro. Una decisione che costituisce un importante precedente in materia di principi costituzionali in uno Stato federale. E che si applicherà anche in analoghi ricorsi pendenti in altri Stati.
L’appropriata decisione della Corte Suprema ha fatto esultare – come è immaginabile – l’ex presidente. Lo ha fatto giustamente inorgoglire, anche se tuttora gli ostacoli giuridici alla sua eleggibilità a presidente non si sono completamente rimossi. Infatti, la Corte Suprema dovrà ancora decidere nel processo federale per i tentativi di falsificare il voto del 2020 e per l’assalto al Congresso. Un altro ricorso da vincere necessariamente, se vorrà prendere parte alla campagna elettorale generale, tra settembre e novembre, in tutti gli Stati Uniti. Certamente, l’ex presidente, con questo precedente già affermato dalla Corte Suprema, può al momento guardare al futuro con una ragionevole fiducia.
Come Trump, anche Biden ha diversi problemi politici in sospeso
Ma se Donald Trump ha purtuttavia ancora qualche spina lungo il suo cammino elettorale (l’attesa decisione della Corte Suprema di cui abbiamo poco prima fatto cenno), anche Biden ha più di una spina, a sua volta, lungo l’iter procedurale che lo dovrebbe portare alla riconferma a capo dell’Esecutivo.
Spine e problemi, di certo non di minore importanza rispetto a quelli del suo avversario e competitore repubblicano. Infatti, proprio nelle “Primarie” del Michigan, Biden pur vincendo con alto margine, ha avuto contestazioni da una parte degli elettori democratici, di origine medio – orientale. Questo gruppo elettorale ha voluto contestare a Biden un eccesso di tolleranza per la sua posizione ritenuta troppo filo-israeliana. A causa del conflitto in corso a Gaza, tra Hamas e Gerusalemme. Le schede elettorali, oggetto della contestazione democratica, hanno avuto subito la denominazione di “uncommitted”. Sembrerebbe che vi sia stata una manifestazione di voto diretta al simbolo ma non al candidato.
Conclusione
In effetti, tale episodio – ossia la vicenda relativa alle Primarie Democratiche del Michigan – può costituire un campanello d’allarme nel sostegno di una rilevante porzione del suo Partito al presidente in carica. Vedremo dunque il proseguimento della spinosa questione.
Sebastiano Catalano
Giovanna Fortunato