Salute / Ebola: serve una risposta a lungo termine per una minaccia ancora attiva

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Oltre 11mila vittime su 27 mila casi: è il bilancio, ancora provvisorio, dell’epidemia di ebola che ha colpito nei mesi scorsi Sierra Leone, Guinea Conakry e Liberia. Ma dopo la fase acuta ed emergenziale, occorre trovare una risposta di lungo periodo. La testimonianza di Donata dalla Riva di Cuamm – Medici con l’Africa, appena rientrata dalla regione.

 

Ebola minacciosa“Siamo in una fase importante per capire come evitare che quel che è successo si ripeta”. Donata dalla Riva, del settore progetti dell’ong italiana Cuamm – Medici con l’Africa, è appena rientrata dalla Sierra Leone, uno dei tre Paesi (insieme a Guinea Conakry e Liberia) che, nei mesi scorsi, sono stati al centro dell’epidemia di ebola più lunga e mortifera della storia: oltre 11.200 vittime su circa 27mila casi. La situazione che descrive è quella di un pericolo che resta presente, anche se solo in maniera limitata: appena 4 nuovi contagi sono stati registrati in Sierra Leone nella settimana conclusa il 19 giugno (l’ultima su cui esistano dati ufficiali) e 24 in tutta la regione. “Anche la carica e la mortalità del virus sembrano essere più basse – prosegue la cooperante – ma la malattia non è ancora del tutto sconfitta”.

Coordinare gli interventi. 
Ora che ci si è lasciati alle spalle la fase acuta, quando in una settimana si potevano verificare anche 200 nuovi casi, si può guardare con più ottimismo al futuro e soprattutto alle misure da prendere sul lungo periodo. “Si stanno sperimentando nuovi potenziali vaccini e altre modalità di test – spiega dalla Riva – e il governo sta lavorando anche sull’ottimizzazione degli interventi sanitari, anche da parte dei Paesi donatori e delle agenzie internazionali: all’inizio di luglio è stata lanciata una campagna che comprende un accordo tra ong e autorità locali, in modo da coordinare e razionalizzare tutti gli interventi, senza sovrapposizioni”. Referenti di tutte le politiche in materia diventeranno le unità sanitarie distrettuali, che sono state al centro degli sforzi della comunità internazionale durante i mesi in cui la malattia infuriava. “Uno dei nostri compiti più importanti – ha notato ad esempioBintou Keita, responsabile in Sierra Leone dell’unità di crisi dell’Unmeer, la missione anti-ebola delle Nazioni Unite – era rafforzare la capacità delle organizzazioni locali, e confidiamo che questo compito sia stato portato a termine”. Se questo è vero per le capacità immediate di risposta all’emergenza, però, sul lungo periodo molto resta ancora da fare: il diffondersi del contagio ha provocato danni enormi al sistema sanitario sierraleonese, già in precedenza uno dei più carenti al mondo. “Nel distretto di Pujehun – racconta ad esempio Donata dalla Riva – esclusi i due medici del Cuamm c’è un solo dottore per 370mila persone e la maggior parte del personale sanitario ha seguito solo due anni di corsi in infermeria e ostetricia”.

Dopo la conferenza di Malabo. È anche per rispondere a situazioni come quella di Pujehun che l’Unione africana, tra il 20 e il 21 luglio, ha convocato a Malabo, in Guinea Equatoriale, una conferenza internazionale su ebola. Obiettivo: trovare, oltre alle risposte politiche, anche i fondi necessari a metterle in pratica. In questo senso, durante il vertice ha ricominciato a farsi strada una proposta di grande portata: azzerare il debito dei Paesi più colpiti. Ad aprile, era stato Alpha Condé, presidente della Guinea Conakry, ad avanzare l’ipotesi. Lo spunto erano state anche precedenti iniziative in materia di debito internazionale, come la campagna lanciata, in occasione del Giubileo del 2000, da varie organizzazioni della società civile e a cui anche Papa Giovanni Paolo II aveva dato il suo appoggio nella lettera apostolica “Novo Millennio Ineunte”. Per quanto riguarda ebola, invece, ad aderire è stato innanzitutto il Fondo monetario internazionale, promettendo un condono complessivo di 100 milioni di dollari. Ancora oltre è andato Abdalla Hamdok, vicepresidente della Commissione economica delle Nazioni Unite per l’Africa, che ha auspicato una radicale “abolizione del debito” di Liberia, Guinea e Sierra Leone. Questo ammonta a 3,16 miliardi di dollari: quasi quanto i fondi (3,9 miliardi) che mancano per finanziare il programma di recupero di cui si è discusso a Malabo. Trasformare la proposta di Hamdok in realtà, dunque, permetterebbe, anche tenendo conto della mancata spesa per interessi, di poter concentrare risorse direttamente sui sistemi sanitari locali, la vera chiave per battere definitivamente il virus e prevenire una sua ricomparsa. “Il caso dell’Uganda e di altri paesi – concorda dalla Riva – ha mostrato che avere un servizio sanitario strutturato sul territorio e un sistema di raccolta dati nazionale permette di diffondere un’allerta immediata e di fare la differenza”.

Davide Maggiore – Agensir