Domenica 15 giugno 2014, a Santa Venerina, un folto numero di spettatori ha partecipato all’ evento culturale dal titolo “I ruderi di S. Stefano parlano ancora…”. Promosso dalla locale associazione “Storia, Cultura e Sviluppo Territoriale”, con il patrocinio gratuito del Fai (Fondo Ambiente Italiano), dell’Archeoclub (comprensorio jonico-etneo), del Cai (Club alpino italiano) e di SiciliAntica (sede di Acireale), si è trattato di un “teatro di reviviscenza” – uno stile fondato nel 1972 da Alfredo Mazzone, drammaturgo e regista italiano. Al centro della rappresentazione il sito archeologico bizantino risalente al V-VII secc. d.C., di cui oggi è possibile ammirare i ruderi che, sebbene compromessi dalle intemperie del tempo e ahimè dalle negligenze dell’uomo, si ergono ancora nell’omonimo e bel boschetto di querce secolari. Di carattere pacifico, senza l’ausilio di alcuna particolare strumentazione audio che potesse turbare quel bel clima incontaminato che è possibile respirare ancora a ridosso della chiesetta, la messa in scena si è svolta praticamente in mezzo alla natura e, per una spettacolare coincidenza, pure l’Etna ha fatto la sua parte con i suoi boati e una timida ricaduta di sabbia vulcanica! Lo storico Charles Samaran, con fin troppa evidenza affermò che “Non c’è storia senza documenti”. Ma il suo conterraneo Fustel de Coulanges ne avvertì subito un limite, allorché sostenne che “Là dove la storia mancano i monumenti scritti occorre che essa chieda alle lingue morte i loro segreti…”. Il teatro di reviviscenza ha reso possibile, in una dimensione reale, percepire, sentire, vedere e immaginare la storia di Santo Stefano e dell’antico éremo. Il monumento – dal latino “monumentum” da cui prende senso il verbo monere (far ricordare) – si è trasformato in un documento – derivato da docere (insegnare) – capace di far parlare quelle tracce e quei segni che altrimenti sarebbero rimasti isolati nell’inconscio di ogni singolo spettatore. Il teatro di reviviscenza ha preso spunto del saggio del prof. Giovanni Vecchio “La cella trichora di Santo Stefano e l’antico éremo di Dagala del Re” (2008), riadattato dallo stesso autore per la messa in scena. Mentre Alfio Vecchio, presidente di “Officina d’arte” di Aci Catena, associazione teatrale che ha fattivamente collaborato con gli organizzatori, si è prodigato per la scenografia. Protagonisti assoluti del testo sono stati i monaci Jacopo, Marco, Mattia, Giovanni, Stefano e il priore Hugo, impersonati da Gianni Costa, Orazio Finocchiaro, Pippo Pennisi, Antonio Spoto, Saro Pulvirenti e Franco Cannata. I monaci hanno risposto mano a mano alle domande provenienti dal pubblico, riferendo così sulle origini e la storia del luogo. È certamente una notizia positiva e incoraggiante quella che è giunta nella settimana successiva al teatro di reviviscenza: l’inserimento nel piano delle opere triennale della Chiesetta di Santo Stefano, con relativa messa in sicurezza del bene monumentale con fondi regionali. Dopo l’acquisizione al patrimonio del comune avvenuta nel 2012, un altro passo importante verso il recupero di uno, forse l’unico, dei segni dell’identità storica e religiosa del comune di Santa Venerina. Alla luce di ciò, “I ruderi di Santo Stefano parlano ancora…”, sembra davvero essere stato un felice presagio.
Domenico Strano