L’ultimo Consiglio dei ministri ha tralasciato l’argomento, ma sembra proprio che ci aspetti “la” riforma della scuola. Ci vuole un po’ di ironia per affrontare un argomento serio, perché, a ben vedere, questa riforma della scuola, più che una serie di provvedimenti, è un tormentone di quelli permanenti. Infatti, cambiano gli anni, cambiano le situazioni sociali ed economiche, cambiano i ministri ma lei, “la” riforma della scuola, è sempre lì: spunta ogni volta come l’annuncio di una svolta epocale, la sistemazione di un sistema – quello scolastico, appunto – che sembrerebbe il freno di tutto il Paese. In questo, ogni governo che si è succeduto negli ultimi anni mostra di prendere sul serio la questione istruzione: scuola da riformare.
Dalla fine del Novecento (quasi quindici anni fa), dopo il ministro Berlinguer, che annunciava e stava per realizzare la Grande riforma, con addirittura la revisione dei cicli scolastici, non è passato un solo inquilino da piazzale Trastevere che, con toni più o meno aulici, non abbia annunciato grandi cambiamenti o Riforme con la maiuscola. Sì, forse qualcuno – si ricorderà – voleva limitarsi ai colpi di “cacciavite”, ma in sostanza tutti hanno ritenuto che la scuola dovesse “cambiare”. E il risultato: oggi la riforma è di nuovo all’ordine del giorno e il Consiglio dei ministri prossimo probabilmente accennerà ai provvedimenti del governo. Scuola “semper reformanda”, verrebbe da dire, facendo il verso a un noto adagio. Però la storia ci consiglia un po’ di ironia, appunto. E tanta prudenza.
Di cosa ha bisogno la scuola di oggi? La domanda potrebbe far paura, ma semplificando molto, e prima di entrare in terreni troppo tecnici, verrebbe da rispondere: un po’ di coerenza e, soprattutto, soldi. I soldi per aggiustare gli istituti pericolanti – e proseguire nello sforzo di adeguamento dell’edilizia scolastica avviato recentemente -, i soldi per adeguare gli stipendi degli insegnanti e far percepire anche così che il loro lavoro è prezioso e apprezzato e non solo un ammortizzatore sociale, come vorrebbe certa vulgata, lavoro che deve poter attrarre giovani e passioni, non chi non sa dove andare. I soldi, perché sono anche un metro che misura l’importanza delle cose: investire sulla scuola vuol dire far capire a tutti – alle famiglie, al mondo del lavoro, al Paese in generale – che non si esce dalla crisi senza il capitale umano, senza la formazione, senza scommettere sui giovani che sono il futuro.
Serve, naturalmente, sistemare la questione organici. È indispensabile la valutazione del sistema, è assolutamente decisivo dare consistenza all’autonomia scolastica che vuol dire anche maggiore attenzione ai bisogni dei territori nel momento stesso in cui si vuole (e si deve) guardare all’Europa. Serve, anche, ridare fiato al sistema paritario, eliminando le discriminazioni tuttora esistenti verso scuole non statali (e le famiglie che vi mandano i figli) che fanno un vero servizio al Paese. E poi la corresponsabilità dei soggetti scolastici, con le famiglie in prima fila, la lotta alla dispersione scolastica, la revisione di alcuni programmi obsoleti. Ci sono, insomma, tante cose da fare. Speriamo anche questa volta nella riforma e soprattutto nel buon senso, Sembrava udirne un’eco in una frase del premier, alla fine dell’ultimo Consiglio dei ministri: “La riforma della scuola non si articola nella stabilizzazione dei precari, è l’assunzione di un patto con le famiglie per definire i contenuti educativi necessari”. Vedremo.
Alberto Campoleoni