Don Giuseppe, e con lui don Giovanni Nervo, sono stati realmente presenze profetiche per la nostra Chiesa, a tratti scomode e perfino discusse ma capaci d’indicare con chiarezza la direzione verso cui tendere e, al tempo stesso, strenuamente impegnate a dare concretezza alle loro intuizioni
“Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi”.
Basterebbe la Parola proclamata nel giorno delle esequie a restituire in pienezza la cifra dell’avventura umana ed ecclesiale di monsignor Giuseppe Benvegnù-Pasini per la Chiesa italiana. Dalle esperienze maturate come giovane cappellano tra le migliaia di lavoratori della zona industriale di Padova fino alla direzione di Caritas Italiana scorre mezzo secolo tutto segnato dall’impegno a dare spessore teologico ed efficacia pratica alla carità.
I suoi amici e compagni di tante esperienze lo hanno ricordato in questi giorni con frasi cariche di emozione e di affetto. Tiziano Vecchiato, che oggi dirige la Fondazione Zancan, nel giorno in cui abbiamo saputo della telefonata ricevuta da papa Francesco confessava che “vivere con i profeti non è semplice: ti spingono ad andare oltre il ‘come sempre’. È una scuola di vita, uno stimolo continuo a trovare risposte ai problemi umani fondamentali e a far incontrare carità e giustizia”.
Difficile scegliere parole migliori. Don Giuseppe, e con lui don Giovanni Nervo, sono stati realmente presenze profetiche per la nostra Chiesa, a tratti scomode e perfino discusse ma capaci d’indicare con chiarezza la direzione verso cui tendere e, al tempo stesso, strenuamente impegnate a dare concretezza alle loro intuizioni.
Quanto devono le politiche sociali italiane – oltre che alla Zancan – a un’esperienza come la scuola superiore di servizio sociale, fondata da Nervo nel 1951 e da cui sono uscite centinaia di assistenti sociali, figure lodate pochi giorni fa dal presidente Mattarella per la loro silenziosa ma “fondamentale azione di rammendo per il tessuto sociale”? Quanto deve loro la Chiesa italiana, per aver fatto della Caritas non (solo) una dispensatrice di aiuti ai più poveri, ma il motore di una riflessione pastorale sul tema della giustizia che continua a interrogare e provocare ciascuno di noi e ciascuna comunità parrocchiale?
Congedarsi da don Giuseppe Benvegnù-Pasini, ripensando anche alla lezione di don Giovanni Nervo, di don Pietro Zaramella e degli altri “giganti” della pastorale sociale padovana, costringe allora anche a guardare senza ipocrisie alla città che gli ha tributato l’estremo saluto. Di forestieri, ammalati, carcerati, affamati di cibo e di giustizia i nostri quartieri non ne hanno forse ospitati mai tanti come adesso. Un sistema politico, sociale, di welfare che credevamo consolidato sta, ormai da troppo tempo, dimostrandosi inadeguato a raccogliere le sfide di un cambiamento epocale che rischia di lasciarci tutti più soli, più deboli e più impauriti. Anche la Chiesa, laddove è impegnata in prima fila nelle situazioni più delicate – penso, ad esempio, allo straordinario lavoro della nostra Caritas per l’accoglienza dei profughi – è nuovamente chiamata a coniugare impegno pratico e approfondimento teorico, a disegnare nuovi paradigmi in campo sociale, guardando alla concretezza dell’oggi senza però rinunciare alla profezia di chi non si accontenta del “come sempre”.
Il pensiero di don Giuseppe è raccolto in un volume dal titolo “La grammatica della carità”. La grammatica è lo scheletro su cui si costruisce una lingua. E senza lingua non vi è pensiero, cultura, società che possa svilupparsi. Ma lingua e cultura sono realtà vive, in perenne trasformazione. Più che un libro, con la sua testimonianza mons. Pasini lascia allora una strada da percorrere, come credenti e come cittadini. Insieme, è stato detto, don Giuseppe e don Giovanni Nervo hanno contribuito alla “primavera della Chiesa”, dando sostanza a quella lezione del Concilio che il vescovo Antonio Mattiazzo ha richiamato nella sua omelia, secondo cui “il nuovo comandamento della carità è la legge fondamentale della perfezione umana e, quindi, della trasformazione del mondo”.
È proprio vero. Non esistono scorciatoie. Non è la strada della spiritualità disincarnata, del buonismo approssimativo o dell’assuefazione che ci consentirà di portare a soluzione vecchi e nuovi problemi. Il secolo che abbiamo alle spalle ci garantisce che non sono le ideologie a costruire il paradiso in terra. Quello che stiamo vivendo pare nutrire simili speranze nei confronti delle tecnoscienze, e ugualmente ne rimarrà deluso.
L’unica, possibile trasformazione del mondo passa per la conversione del cuore, proprio nel segno della carità. Un percorso impegnativo, a tratti aspro, lungo cui mettere in conto cadute e rallentamenti. Ma – ce lo insegna don Giuseppe e ce lo ha ricordato il vescovo Antonio – “noi tanto valiamo quanto la nostra carità. E, alla fine della nostra vita, sulla carità saremo esaminati e giudicati”.
Guglielmo Frezza, direttore “La Difesa del popolo” (Padova)