Tutto delle società africane differisce dalle nostre società: lo stile di vita, l’approccio alla sofferenza e al lutto, la dinamica parentale, le credenze religiose, le politiche pubbliche, il tempo libero, ecc. Tuttavia, quello che tra gli innumerevoli aspetti colpisce maggiormente per la sua difformità col mondo europeo e per la sua asprezza è certamente la scuola. L’insufficienza degli ambienti, la carenza di libri e di materiale didattico, l’abissale differenza di comportamento degli alunni rispetto ai nostri, la povertà disarmante dei loro indumenti talmente sdruciti e logori che non destineremmo neanche al macero degli abiti usati, fanno molto riflettere sul nostro avere in eccesso e sul loro avere neanche il minimo per coprirsi dal freddo di aule senza porte e finestre.
La percentuale di alunni che hanno un rendimento quantomeno discreto all’interno di ogni classe è veramente bassa. Questo si verifica perché a casa non si può studiare per via dei lavori domestici che sono prioritari rispetto allo studio, in un contesto sociale in cui il contributo lavorativo della prole è fondamentale per la sussistenza della famiglia stessa.
Tanti alunni in Tanzania, nelle nostre scuole italiane, sarebbero affiancati da un’insegnante “di sostegno”, ma lì queste figure non esistono e il numero complessivo di docenti non è sufficiente in uno Stato dove la media di bambini in ogni classe è di circa novanta alunni. Al basso rendimento scolastico è legata la malnutrizione, dovuta a un’alimentazione poverissima di apporti calorici: ne deriva che per l’intera giornata, dall’alba fino al tramonto, i bambini non si alimentano, salvo attraverso ruberie di frutti e ortaggi commestibili dagli orti degli insegnanti, che vivono nei pressi della
Mentre sono riuscita ad “assuefarmi” ad un simile contesto, c’è un aspetto al quale non mi sono abituata o, meglio, non mi sono voluta abituare: le punizioni corporali a scuola.
La legge nazionale tanzaniana autorizza gli insegnanti a fare ricorso a percosse che dovrebbero limitarsi a tre colpi di bastoncino nel caso in cui l’alunno non supera un esame, non ha una buona interrogazione o non è attento durante le lezioni. Tuttavia, questo limite non viene rispettato e di fronte a gravi ferite osservate sugli arti dei bambini, ho voluto incontrare il preside della scuola per esprimere la mia difficoltà ad insegnare in un ambiente in cui, anziché gioire insieme ai bambini, si odono continuamente pianti e colpi di bastone. Ho cercato di fargli comprendere, durante una lunga conversazione, quanto le punizioni corporali siano controproducenti per il rendimento scolastico dei ragazzi, contrariamente alla credenza comune in Tanzania, e quanto siano pericolose per il loro sviluppo psico-fisico.
Nei momenti di “convivialità” nel villaggio, a conclusione delle attività formali giornaliere, ho sempre cercato di dialogare sia con i genitori, per scuoterli dalla loro assuefazione a una violenza ingiusta e fuori legge, sia con gli insegnanti spiegando loro che attraverso dei metodi didattici attraenti e un approccio empatico, si possono raccogliere lo stesso dei frutti, senza ricorrere alla violenza fisica.
Grazie alla disponibilità di uno psicologo tanzaniano e al coordinatore del dipartimento Istruzione del distretto, abbiamo organizzato un seminario di sensibilizzazione rivolto a tutti gli insegnanti del comprensorio sul legame negativo tra un buon rendimento scolastico e le punizioni corporali.
La proposta è stata accolta con grandissimo entusiasmo dalle autorità locali, in quanto giungeva proprio in concomitanza con un incontro tenuto dal coordinatore distrettuale del settore Istruzione con i genitori degli alunni delle varie scuole del territorio di sua competenza, in occasione del quale le famiglie all’unisono avevano lamentato un uso sproporzionato delle punizioni corporali.
La realizzazione del seminario per gli insegnanti è stata una delle esperienze più significative del mio anno e mezzo in Tanzania. L’avere messo al centro della discussione il bambino con il suo vissuto e l’influenza dell’ambiente in cui vive, insieme alla cura dei genitori come fattori determinanti per un buon andamento, non solo a scuola, ma nella vita in generale, ha permesso ai vari insegnanti di aprire uno squarcio sul proprio lavoro mai esaminato prima. Dal confronto finale sono emersi solo riscontri positivi e una volontà di fare del proprio meglio per ridurre le punizioni corporali, se non abolirle del tutto.
La sfida dopo il seminario è continuare a “sorvegliare” affinché quanto appreso possa concretizzarsi nel quotidiano per evitare, come ha esemplificato lo psicologo, il rischio del fumatore che si rende conto che fumare è una pratica negativa, quindi decide di smettere, ma dopo pochi mesi riprende a fumare più di prima. Per scampare a questo pericolo, occorre “allenare il cuore e la mente”, affinché la grande volontà iniziale di interrompere questa pratica brutale possa imprimersi nella coscienza di questi insegnanti che ci ricordano per alcuni versi la brutalità dei maestri di scuola dei nostri nonni o genitori.
Purtroppo, non posso dire che dopo il seminario il bastone usato per le percosse sia stato abolito nella scuola in cui ho lavorato. Tante volte ne ho visti entrando in classe e così ho iniziato a cestinarli, portando avanti la mia battaglia non violenta. Altre volte, in modo subdolo, alcuni insegnanti li nascondevano sotto i banchi delle ultime file credendo che io non li vedessi, ma anche quelli li buttavo via, ovviamente sotto gli occhi dei bambini che riferiscono. Un giorno, un ragazzino, mentre ero in classe, è entrato dicendomi che la maestra chiedeva un bastone e la mia risposta è stata quella di comunicare all’insegnante che li avevo rimossi dalla classe. Un altro giorno, mentre entravo nel cortile della scuola, ho sentito, come di consueto, i pianti di una bambina che era stata appena picchiata. Il fatto che io fossi arrivata ha comunque impedito che l’insegnante continuasse a percuotere, perché, da quello che mi hanno poi riferito i bambini l’ora successiva, il maestro ha smesso perché ero arrivata io. Ma hanno aggiunto che il maestro ha comunicato loro che l’indomani avrebbe continuato quando io non sarei stata in classe. L’unico insegnante che ha sempre dichiarato di essere contro il bastone, perché considerato da lui uno strumento del passato, proprio questa settimana ha ricominciato ad utilizzarlo, perché sostiene che solo così può sortire dei buoni risultati.
La strada da percorrere è ancora lunga e tortuosa: un solo seminario non può sradicare una pratica così diffusa e cristallizzata nelle istituzioni governative. Tuttavia, questo scambio culturale, come ho definito il mio servizio civile all’estero, è servito sicuramente a mettere in discussione la veridicità di una convinzione radicata nelle coscienze e allo stesso modo in cui si è riusciti a estirpare il male della violenza istituzionalizzata nelle scuole in Italia, sono convinta che anche in quella terra lontana, si possa finalmente, nel futuro prossimo, parlare delle violenze corporali solo come un retaggio del passato.
Sefora Monaco