Pier Paolo Eramo è il dirigente di un istituto Comprensivo del Parmense. E’ finito sui media per un’iniziativa singolare: sulla pagina Facebook della scuola ha pubblicato alcuni stralci delle conversazioni dei suoi alunni, quelle che normalmente si scambiano su WhatsApp, da un cellulare all’altro: insulti, minacce, accanimento verso alcuni ragazzi.
Lo ha fatto – scrive su Facebook – “perché ci siamo stufati”. Di cosa? “Siamo stufi – spiega il preside – di questo assurdo mondo parallelo che ci inquina; siamo stufi dell’uso sconsiderato e irresponsabile delle parole; siamo stufi dell’assenza degli adulti”. Poi un’altra frase, che rimanda a un contesto ampio e purtroppo ben noto: “E non vogliamo più sentire che era solo uno scherzo, un gioco, che non immaginavamo, che non sapevamo”.
Il riferimento è al fenomeno del cyberbullismo, che Telefono azzurro definisce in questo modo: “L’uso delle nuove tecnologie per intimorire, molestare, mettere in imbarazzo, far sentire a disagio o escludere altre persone”. Un fenomeno ben presente nelle scuole e in generale nel mondo di preadolescenti e adolescenti.
Una ricerca di Telefono Azzurro di fine 2014 condotta su oltre 1.500 studenti di scuole italiane tra gli 11 e i 19 anni, mostrava come l’80,3% degli intervistati ha sentito parlare di cyberbullismo; 2 su 3 (39,2%) conoscono qualcuno che ne è stato vittima, 1 su 10 ne è stato vittima (10,8% degli intervistati; il 9,1% dei ragazzi ed il 12,6% delle ragazze). Dalla stessa indagine è emerso anche che i ragazzi vittime di cyberbullismo esprimono più frequentemente manifestazioni di disagio, quali difficoltà a dormire e poca voglia di mangiare, ma anche vissuti di solitudine e scarsa gratificazione nelle relazioni interpersonali, come ad esempio il timore di essere derisi dagli altri. La cronaca ci parla poi non di rado di manifestazioni di disagio estremo, fino al suicidio.
Un problema serio, dunque. E il gesto del preside del Parmense è importante. Rimanda alla necessità che gli adulti non chiudano gli occhi e intervengano. Il preside invita anzitutto i genitori: è ora di agire, “di prendere in mano il cellulare dei nostri figli, di guardarci dentro (perché la privacy nell’educazione non esiste), di reagire, di svolgere in pieno il nostro ruolo di adulti, senza alcuna compiacenza, tolleranza bonaria o, peggio, sorniona complicità”. Perché, conclude, “non serve andare dal preside e chiedere cosa fa la scuola quando la vittima di turno non ha più il coraggio di uscire di casa. È troppo tardi. Cominciamo a fare qualcosa tutti. Ora”.
Grazie, preside. Il richiamo è alla responsabilità educativa che però, purtroppo, non è “innata”. I genitori stessi hanno bisogno di essere aiutati, perché spesso non sanno proprio cosa fare e nemmeno ci pensano. Lo smartphone diventa non di rado il vero centro della vita dei ragazzi e quanti adulti ne sono quasi intimoriti… Vietare non serve molto, naturalmente. Ma evitare che sia uno spazio parallelo e solitario, questo sì. E come comportarsi?
Di nuovo diventa decisiva la collaborazione tra educatori, tra scuola e famiglia, tra chi, “per mestiere” e con competenza deve avere gli occhi aperti e le orecchie alzate e chi talvolta, invece, si trova in prima linea solo perché ce lo ha messo la vita. Nessuna scusa, intendiamoci. L’iniziativa del preside suona come una sveglia. Preziosa e da non spegnere frettolosamente, quasi in modo automatico, girandosi dall’altra parte per continuare a dormire.
Alberto Campoleoni