Le acque della scuola sono agitate. E forse è un eufemismo, almeno a giudicare dai proclami che accompagnano l’avvicinarsi dello sciopero del 5 maggio. Uno sciopero che somiglia tanto a un braccio di ferro, una prova di forza del mondo della scuola, quasi “alla conta” contro il disegno di legge del governo, la Buona scuola, che ha voluto presentarsi come una riforma cresciuta dal basso – con tanto di consultazione online – e che viene invece contestata come un atto d’imperio.
Come stanno le cose? Dove stanno le ragioni? Difficile dire, perché oltre ai temi sul tavolo, esasperati nella logica delle parti contrapposte, bisogna fare i conti con l’oggettiva difficoltà in cui si trova, pressoché da sempre, il mondo della scuola (e il mondo della politica) ogni volta che si avvicina una “riforma”, ogni volta che il governo di turno propone di cambiare assetti strategici. Una “regola”, questa – della “resistenza” di default – che vale anche oggi e che non di rado impedisce di misurare (e sciogliere) i nodi sulla strada del cambiamento.
La prima questione: le assunzioni. Doveva esserci un decreto, si è virato sul disegno di legge. E c’è chi nota come sia assurdo protestare contro “un governo che assume” (il piano dovrebbe prevedere 100mila assunzioni). Ma per i sindacati, la proposta dal governo non è sufficiente, lasciando fuori gli idonei all’ultimo concorso e migliaia di precari d’istituto, che hanno prestato servizio per anni, cui verrebbe dato il benservito. Inoltre resta il problema del decreto che, per i sindacati, va riproposto (anche in vista della necessità di fare in tempo per l’avvio del nuovo anno scolastico). Poi c’è l’ostacolo del “preside-sindaco”, che la riforma vorrebbe con più poteri, dall’elaborazione del Piano formativo d’istituto alla valutazione del merito dei docenti, fino alla chiamata diretta degli insegnanti dagli albi territoriali. Qui lo “spavento” (giustificato o meno) degli insegnanti è forte e qualche preoccupazione l’hanno anche i dirigenti scolastici, col timore di un carico di responsabilità/lavoro eccessivo, mentre per i docenti lo spauracchio è quello di avere a che fare con un dirigente “deus ex machina”, da cui dipende troppo.
Ci sono poi altri punti che vengono discussi e contribuiscono ad alimentare la protesta indetta per il 5 maggio; dalle questioni legate al rapporto più stretto tra scuole e aziende, col tema delle relazioni coi privati e, soprattutto, del possibile ripiegamento eccessivo della scuola sul mondo del lavoro (l’alternanza scuola-lavoro è anch’essa in discussione, non tanto nel principio, quanto sulle “quantità”).
Insomma, c’è parecchio materiale sul tavolo, insieme all’incertezza legata ai cambiamenti “in itinere”. Anche negli ultimi giorni sono state ritoccate proposte, a livello politico, ad esempio sulla figura/compiti del preside. Questo farebbe pensare ad una riforma “aperta”, attenta ai suggerimenti della base, come peraltro ha sempre auspicato il ministro Giannini. Ma c’è anche chi punta il dito contro un’altra questione: l’eccesso di delega, per cui al governo verrebbe lasciata via libera di intervenire, per decreto, a troppo ampio spettro.
Vedremo come si uscirà dall’impasse, dopo la manifestazione del 5 maggio. Il rischio è quello dell’inasprirsi delle posizioni, della logica dello scontro. Servirebbe invece, dopo il confronto, anche con toni forti (e i numeri in piazza avranno significato), “raccogliere”, mediare, cercare un’uscita condivisa. Vero che il tempo stringe, ma non è esaurito.
Come stanno le cose? Dove stanno le ragioni? Difficile dire, perché oltre ai temi sul tavolo, esasperati nella logica delle parti contrapposte, bisogna fare i conti con l’oggettiva difficoltà in cui si trova, pressoché da sempre, il mondo della scuola (e il mondo della politica) ogni volta che si avvicina una “riforma”, ogni volta che il governo di turno propone di cambiare assetti strategici. Una “regola”, questa – della “resistenza” di default – che vale anche oggi e che non di rado impedisce di misurare (e sciogliere) i nodi sulla strada del cambiamento.
La prima questione: le assunzioni. Doveva esserci un decreto, si è virato sul disegno di legge. E c’è chi nota come sia assurdo protestare contro “un governo che assume” (il piano dovrebbe prevedere 100mila assunzioni). Ma per i sindacati, la proposta dal governo non è sufficiente, lasciando fuori gli idonei all’ultimo concorso e migliaia di precari d’istituto, che hanno prestato servizio per anni, cui verrebbe dato il benservito. Inoltre resta il problema del decreto che, per i sindacati, va riproposto (anche in vista della necessità di fare in tempo per l’avvio del nuovo anno scolastico). Poi c’è l’ostacolo del “preside-sindaco”, che la riforma vorrebbe con più poteri, dall’elaborazione del Piano formativo d’istituto alla valutazione del merito dei docenti, fino alla chiamata diretta degli insegnanti dagli albi territoriali. Qui lo “spavento” (giustificato o meno) degli insegnanti è forte e qualche preoccupazione l’hanno anche i dirigenti scolastici, col timore di un carico di responsabilità/lavoro eccessivo, mentre per i docenti lo spauracchio è quello di avere a che fare con un dirigente “deus ex machina”, da cui dipende troppo.
Ci sono poi altri punti che vengono discussi e contribuiscono ad alimentare la protesta indetta per il 5 maggio; dalle questioni legate al rapporto più stretto tra scuole e aziende, col tema delle relazioni coi privati e, soprattutto, del possibile ripiegamento eccessivo della scuola sul mondo del lavoro (l’alternanza scuola-lavoro è anch’essa in discussione, non tanto nel principio, quanto sulle “quantità”).
Insomma, c’è parecchio materiale sul tavolo, insieme all’incertezza legata ai cambiamenti “in itinere”. Anche negli ultimi giorni sono state ritoccate proposte, a livello politico, ad esempio sulla figura/compiti del preside. Questo farebbe pensare ad una riforma “aperta”, attenta ai suggerimenti della base, come peraltro ha sempre auspicato il ministro Giannini. Ma c’è anche chi punta il dito contro un’altra questione: l’eccesso di delega, per cui al governo verrebbe lasciata via libera di intervenire, per decreto, a troppo ampio spettro.
Vedremo come si uscirà dall’impasse, dopo la manifestazione del 5 maggio. Il rischio è quello dell’inasprirsi delle posizioni, della logica dello scontro. Servirebbe invece, dopo il confronto, anche con toni forti (e i numeri in piazza avranno significato), “raccogliere”, mediare, cercare un’uscita condivisa. Vero che il tempo stringe, ma non è esaurito.
Alberto Campoleoni
(Fonte: AgenSir)