Scuola / Tra bullismo e crimine, la cronaca impone a tutti un’assunzione di responsabilità

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Bullismo o crimine? Il confine non è così facile da definire nel caso che le cronache hanno riportato nei giorni scorsi: a Reggio Emilia sono stati arrestati dai carabinieri sei ragazzi minorenni che avevano messo a segno una serie di rapine nelle scuole della città. A dire la verità, gli arresti recenti sono solo tre: altri tre, infatti, erano già avvenuti nell’immediatezza dei fatti. Il capo di quella che è stata definita una baby gang ha solo 16 anni. Nel mirino degli investigatori ci sono almeno 12 episodi in cui la banda sarebbe entrata in azione. Una volta, nel novembre scorso, la bullismobanda aveva agito in una scuola della città, un istituto superiore, durante la ricreazione, rapinando del portafoglio uno studente minorenne alla macchinetta distributrice di bevande. Lo avevano circondato, minacciato, gli avevano torto il braccio dietro la schiena e infine rapinato. In un altro caso, in quattro avevano aggredito un ragazzo all’uscita da scuola, prendendolo a pugni e rubandogli il telefonino. Telefonino nel mirino della baby gang anche in un altro episodio, sempre ai danni di un minorenne, ancora avvicinato e minacciato.

Bullismo o crimine? Si sa, anche le parole hanno peso e non solo definiscono, ma anche, in qualche modo, giudicano. Nel caso dei ragazzi di Reggio Emilia siamo di fronte a violenze e reati, che forse rubricare “semplicemente” sotto la categoria del bullismo, rischia di diminuire la responsabilità delle persone coinvolte e anche di chi sta loro intorno. Nello stesso tempo, il termine bullismo, che evoca una realtà più soft, da “ragazzi” – pur naturalmente senza fare sconti alla serietà del problema – può aiutare a cogliere la dimensione del disagio e delle responsabilità degli adulti, di chi sta intorno ai minori che delinquono.

Queste riflessioni sono ben praticate nel mondo della scuola, dove non di rado succede di dover fronteggiare episodi, sicuramente meno eclatanti di quelli che ci ha appena restituito la cronaca, ma tuttavia ugualmente “seri”. Con ragazzini vessati dai compagni, non solo colpiti da violenze fisiche, ma sempre più spesso vittime di pressioni che passano attraverso il mondo impalpabile dei social media, colpiti nella “reputazione” e nella dimensione per loro più importante che è la socialità. Cyberbullismo è un’altra parola ben nota a chi si occupa di educazione.

Come si fronteggiano casi del genere, che talvolta finiscono sui giornali? In tante scuole esistono progetti e attività specifiche. Passano attraverso una responsabilizzazione condivisa negli istituti e un’attenzione maggiore al rapporto tra i minori e gli adulti che vanno a “raccogliere” le situazioni di disagio. Una ragazza, vittima di alcune coetanee, arrivate a picchiarla, racconta in una lettera pubblica di come sia stato importante il rapporto con i genitori – ma potremmo pensare anche quello con gli insegnanti, cioè con figure adulte di riferimento – capaci di incoraggiare e sostenere. Capaci, soprattutto, di meritare fiducia e far così uscire la “vittima” dall’effetto peggiore delle vessazioni: l’isolamento, la solitudine, la paura di non farcela. E’ questo incubo che in alcune occasioni ha portato anche a gesti estremi.

Guardare in faccia la realtà, chiamare le cose col loro nome – anche sgradevole e urticante (crimine?) – e nello stesso tempo lasciarsi coinvolgere, prendersi la responsabilità, costruire rapporti nuovi e relazioni buone. E’ un meccanismo che conoscono bene gli educatori, gli insegnanti. E’ una strada obbligata e proprio a partire dalle aule scolastiche immette anticorpi importanti per tutta la società.

Alberto Campoleoni

 

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