Se il seggio diventa osservatorio della realtà

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Non ho mai frequentato con particolare interesse gli ambienti politici: non mi piacciono il fumo delle sedi, le pacche e le nocche strette sugli avambracci.  Domenica, come segretaria, sono andata, accompagnata da un cielo terso, al seggio, in una zona periferica di Giarre. “Un sacco di gente andrà al mare”, ho pensato. Invece no. In processione e a singhiozzo, in due giorni si sono avvicendati più di quattrocento votanti, meno della metà degli elettori per quella sezione, donne più numerose degli uomini, ma in genere si sa che al mercato del sesso maschile la roba è poca, e pure un po’ scadente. Le prime ad arrivare sono delle vecchiette, di buon’ora. Verranno un sacco di persone anziane: sbarbate, pulite, precise, chiedono se vogliamo vedere la “tessera”. Inutile chiamarla diversamente, per loro la carta d’identità è e rimarrà tale per sempre, o almeno fino a che non saluteranno le loro vite consunte con un ultimo sguardo umido e affaticato. Puliti, sbarbati, profumati e con le camicie ben stirate gli uomini, odorose di borotalco e con le scarpe comode le donne: mariti e mogli, si camminano a fianco da cinquant’anni, e, assieme alla pazienza, non hanno mai perso neanche una votazione.

Tre, quattro giovani donne incinte vengono coi loro compagni, penso che siano ragazzi coraggiosi, per aver scelto di fare figli. E forse sono venuti a votare proprio per loro. “Signorina, le posso chiedere una cosa? Quali sono le schede per l’acqua?” “La prima e la seconda. Le altre sono per il nucleare e il legittimo impedimento” “E chi veni a diri?” Glielo spiego, e dopo qualche secondo la signora, serissima “Le voto tutte allora, si deve poter processare chiunque”. Quanti di loro non sanno per cosa votano? Quante schede bianche troveremo? È l’acqua l’angoscia di questa gente. Hanno sentito dire che dovranno pagarla ai privati, che costerà di più. L’idea provoca reazioni quasi primitive. Li guardo, i loro occhi, quando escono dalle cabine e mi avvicino per farmi dare le schede, non voglio che sbaglino inserendole nelle urne, mentre sento l’odore di un atavico attaccamento al necessario.

Questa gente non parla di politica. Loro sono qui perché avvertono che qualcosa potrebbe succedere nelle loro vite, nelle loro case. Mi sembra quasi di sentirla, questa gente: sono le signore che dicono che i politici sono tutti schifosi, i muratori che parlano al bar la mattina, quelli che si vantano di non votare “perché tanto mangiano tutti, a destra e a sinistra”, sono le ultime ruote del carro della democrazia, la carne da macello che si tappa il naso per votare l’assessore che darà un posticino al nipote. Ma qui, nessuna parola conta più. Determinati, entrano, votano, escono. Di molte signore sole, che sono venute a votare tornando dal mare,si vedono i nastri dei bikini attorcigliarsi al collo, tra i capelli un po’ secchi per le tinture aggressive. Tre suore vengono dall’isolato vicino, ma con la macchina perché fa caldo. Famiglie, ne entrano pure: bambine bardate per le cresime che si tengono nella chiesa madre, mamme che odorano di detersivi, padri con le mani indurite e le scarpe lucide.

Questo è un quartiere di lavoratori, che con dignità si alzano presto la mattina e sudano tutto il giorno. Le schede passano dalle mani callose, perché la gente semplice non ama chiacchierare, ma quando è chiamata a farsi sentire, parla, e parla chiaro. Ma la sinistra intellettuale, quella che fuma nei salotti e legge MicroMega, penso, di questa gente che cosa ne sa? Ho saputo che un signore anziano ha chiesto di entrare per votare prima che il seggio fosse aperto. Aveva lasciato la motoape sulle strisce pedonali, in moto. Voleva votare al volo, poi sarebbe andato a lavorare. Gli è stato detto che era troppo presto, e non è più tornato. Lunedì all’ora di pranzo è venuto un ragazzo di vent’anni con le scarpe antinfortunistica. Non poteva votare perché non risultava nelle liste, forse aveva cambiato residenza e non erano state aggiornate. Telefonate all’ufficio elettorale del Comune per sapere cosa dire, dove mandarlo. Lui aspetta tutto il tempo che serve. Poi sono quasi le due e mezzo “Se voto non cambia niente, ma se arrivo tardi mi licenziano e se poi non lavoro come faccio?” Ha ragione, scusi e arrivederci. Sono le 15 e un minuto. Si affaccia un elettore. È tardi, le urne sono già spalancate e le schede aperte sui tavoli: sì, no, bianche, nulle. I giochi sono fatti, e il futuro non aspetta i ritardari.