Uno dei bisogni esistenziali di ciascuno è quella di una “presenza”, di compagnia nella propria vita, di una relazione. Nella vita della società contemporanea viene continuamente penalizzato il rapporto umano: l’indifferenza, eccessivo irrigidimento dei ruoli, la ripetitività e i pregiudizi bloccano ogni comunicazione umana. La comunicazione non richiede tanto un’intelligenza concettuale ma una simpatica ed empatica che si traduce nell’accogliere l’altro e nella capacità di comprendere la sua parte migliore.
Nell’istante in cui il mio io è riconosciuto si sono poste le premesse per la costruzione di un noi dinamico e vitale. Se all’interno di una relazione manca la reciprocità, quest’ultima potrebbe svuotarsi di significato. Questa scambievolezza non forma una relazione a senso unico, né alimenta l’individualismo ed il nichilismo (il non senso) esistenziale ma è verso l’alterità, la gratuità, la responsabilità. Una scambievolezza che è esserci per l’altro che non si configura come dipendenza ossessiva, o utilitarismo economico e politico, ma è disponibilità, donazione, attenzione.
Nel rapporto io-tu, nell’apertura, nel dialogo, nel confronto, nell’incontro si trova l’origine di quella libertà nella quale si realizza l’uomo. Ogni comunicazione ed ogni confronto sono fonte di arricchimento personale.
Cosa permette la comunicazione? Permette di strumentalizzare l’altro (o anche una notizia) o di raggiungerlo? Quando le intensioni sono lontane da quelle economiche di utilità o di strumentalizzazione, la distanza tra il mezzo e il fine si accorcia. La relazione io-tu, o se volessimo anche quella io-mondo, inevitabilmente si presta come un mezzo-fine in queste situazioni: trasmette un messaggio, permette una conoscenza, costruisce una relazione, risolve alcuni conflitti. Per questo l’importanza della comunicazione non è da sottovalutare nel campo formativo.
Chi è l’educatore? Colui che guarda il proprio educando in una prospettiva di cambiamento. Non dobbiamo aver paura ad usare questa parola. Ci sono molti cambiamenti positivi che possiamo realizzare nella nostra esistenza. Il fine dell’educatore è quello di migliorare la qualità della vita, di sollevare la persona quando si venga a trovare in uno stato di degrado morale, di indicare strade senza sostituirsi ad essa. Allora la relazione educativa è una relazione particolare, non generica, perché ha un’intenzione morale: è rivolta all’etica, guida l’educando a diventare capace di scegliere – da se stesso – il bene.
Come fa ad esser educativa una relazione? L’equivalente di questa domanda potrebbe esser un’altra: poiché l’educazione passa per l’interazione, come si rende formativa una comunicazione? A tale domanda rispondo in linea di principio con l’antica ed attuale “arte maieutica” socratica, comunemente chiamata come “l’arte di far uscire fuori”. Come l’ostetrica aiuta una mamma a partorire, cosi Socrate paragonava la sua attività di filosofo a tale mestiere: aiutava l’uomo a “generare”. In genere si considerano i piccoli come dei sacchi da riempire. Il lavoro maieutico è proprio il contrario: aiuta l’educando a far uscire fuori la propria personalità, e individuare i propri valori ed a potenziare i propri punti deboli. Un esempio pratico: via via che la morale del bambino acquista autonomia non è preferibile dirgli: “Copriti perché c’è freddo”, ma “ci si copre perché c’è freddo”. La prima affermazione sa di un imperativo, la seconda affermazione sa più di un insegnamento: educare all’interiorità che pensa è un “lavoro” maieutico.
Riccardo Naty