Giorni addietro, ho sentito l’impellente bisogno di farmi più presente come presbitero nella comunità ecclesiale dove vivo da sempre. Mi sono chiesto: come farlo?
Per rispondere a questa domanda così esigente, permettetemi che faccia un riferimento personale. Esattamente il 19 ottobre scorso, ho inviato al nostro Vescovo Antonino, tramite WhatsApp, il seguente messaggio.
“Eccellenza, questa mattina sono andato a visitare la magnolia che ho piantato e ho visto che ha già dato alla luce i suoi piccoli bocci, nonostante il lungo inverno.
Le ho chiesto se avesse una parola da regalarmi e, dopo averci pensato, vedendomi un po’ preoccupato per certi prossimi avvenimenti da vivere nella Chiesa, serenamente mi ha risposto di tenermi sempre saldo alle radici. La via dell’espansione passa per quella della contrazione. Più di bocci, mi ha detto, puoi già vedere una pianta fiorita. Poi, ha aggiunto, senza rimproverarmi: “Prenditi cura di me ogni giorno! Nell’attenzione, infatti, delle piccole cose la vita scopre il suo mattino e il suo splendore”. “Dio la benedica” mi ha risposto il Vescovo.
Tutte le questioni, oggi, passano inevitabilmente attraverso l’opera della nostra presenza e delle relazioni che sappiamo tessere con gli altri. Ne ho parlato quindi con l’amico Peppino Vecchio, direttore della Voce dell’Jonio, e avendone ricevuto, affabilmente, l’assenso a scrivere sul suo giornale, ho pensato di realizzare il mio proposito attraverso l’arte della scrittura.
Parliamo di Sinodo
Don Lorenzo Milani, scrivendo a Dina Lovato il 16 marzo 1966, così si esprimeva: “Ma è che l’arte dello scrivere è la religione. Il desiderio d’esprimere il nostro pensiero e di capire il pensiero altrui è l’amore. E il tentativo di esprimere le verità che solo si intuiscono le fa trovare a noi e agli altri. Per cui esser maestro, esser sacerdote, esser cristiano, essere artista, essere amante e essere amato sono in pratica la stessa cosa”. Questa lunga citazione di don Milani mi getta nello sconforto, ma ugualmente voglio mettermi alla prova.
L’anno del Sinodo sulla sinodalità, nonostante l’urticante cacofonia, avviato il 9 ottobre scorso, e nella nostra diocesi il 20, ci invita tutti seriamente a camminare insieme. E con coraggio intraprendere nuovi sentieri.
I discorsi sono belli, profondi, gli obiettivi alti e condivisibili. Il Sinodo già è stato definito “l’avvenimento ecclesiale più importante dopo il Concilio Vaticano II”. Per la BBC, “Papa Francesco ha lanciato ciò che qualcuno descrive come il più ambizioso tentativo di riforma cattolica degli ultimi sessant’anni”.
Così si esprimeva Papa Francesco…
Il punto di partenza sta in una evidenza espressa dallo stesso Papa, rivolgendosi alla Curia romana per gli auguri natalizi del 2019. “Non siamo nella cristianità, non più! Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati. Abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale che non vuol dire passare a una pastorale relativistica. Non siamo più in un regime di cristianità perché la fede – specialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente – non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune. Anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata”.
Non è finito il cristianesimo. E’ finita la cristianità, ossia quel sistema tra chiesa e società, tra cristianesimo e cultura, tra religione evangelica e religione civile.
Tutto questo, semplificando assai, non c’è più, anche se in Italia, e soprattutto nelle nostre comunità locali, ci siamo cullati di poter vivere con questa illusione!
Per quanto tempo ancora? Non c’è più tempo da perdere! Questa è l’ora delle scelte, anche dolorose! E a tutto ciò non siamo assolutamente preparati.
Dio ci salvi dallo spettro di un Sinodo universale ridotto a congresso di studi per intellettuali di settore. Tutti si stanno affrettando a dire: niente modello delle conferenze, dei congressi, delle settimane di riflessione…
E’ tempo di cominciare a parlare, riflettere e soprattutto confrontarci sulle cose che contano e che ci fanno sperare. Mentre amiamo sempre meno, anzi non amiamo affatto le riunioni poco edificanti, fredde e vuote!
Non solo parole ….
“Le parole sono il nostro mestiere. Sentiamo tutti – diceva Cesare Pavese in “Ritorno all’uomo, 20 maggio 1945” – di vivere un tempo in cui bisogna riportare le parole alla solida e nuda nettezza di quando l’uomo le creava per servirsene. Il nostro compito è difficile ma vivo. E’ anche il solo che abbia un senso e speranza. Sono uomini quelli che attendono le nostre parole, poveri uomini come noialtri quando scordiamo che la vita è comunione”. E’ quando dimentichiamo che la vita è comunione, che essa diventa solamente una noia mascherata e le parole, tutte, diventano inutili chiacchere.
In questi anni, anzi in questi decenni non abbiamo fatto altro, per usare un’espressione di don Giuseppe Dossetti, che dilapidare continuamente una immensa eredità che avevamo ricevuto. E adesso? Oltre a leccarsi le ferite, cosa si può fare?
Ecco, il Sinodo è l’ultima possibilità, forse, che possiamo cogliere per evitare che la casa ci crolli addosso, completamente, rovinosamente, così come ci ricorderebbe Bonhoeffer.
Non basta più pronunciare le parole, ma occorre “ricominciare da Dio” testimoniare con le nostre stesse vite, dobbiamo convertirci nuovamente alla fede in Dio, dalla religione del Tempio alla fede nel Golgota, dalla religione del sommo sacerdote alla fede nel Crocefisso.
Ritornare all’educazione della mente e del cuore
Il tempo del Sinodo coincida allora con l’ora delle nostre responsabilità: bisogna diventare uomini e donne responsabili.
Il ritorno all’ educazione della mente e del cuore è una delle necessità che offrono e pretendono responsabilità di una nuova cultura e di una nuova politica. Oggi stiamo soccombendo di fronte ad un analfabetismo di ritorno, non solo di tipo religioso, ma anche politico e civile. Rischiamo di essere “analfabeti di civiltà”.
Non è ritornato il tempo, per dirla con don Primo Mazzolari, di impegnarci con Cristo, per Cristo, in Cristo? Questo miracolo potrà accadere unicamente se ci incamminiamo verso le strade che ci portano alla discepolanza di Cristo gioiosa e senza complessi.
Ad Antiochia, per la prima volta, i discepoli di Gesù furono chiamati cristiani. Oggi, paradossalmente, i cristiani debbono tornare a ridiventare discepoli, come sulle rive del mare di Galilea. Solo quando si è diventati discepoli, si impara a parlare nuovamente, come il sordomuto del Vangelo di Marco al cap. 7,35.
Diventare discepoli è l’opera prima della vita e per tutta la durata di essa.
Si racconta di don Milani che sul letto di morte disse: “Ti rendi conto, caro, cosa sta accadendo in questa stanza? In questa stanza c’è un cammello che passa per la cruna di un ago”.
Una risposta alla sfida pastorale del nostro tempo deve provenire anche dalla parrocchia, con la viva partecipazione dei fedeli laici; senza una presenza seria di credenti adulti, infatti, la parrocchia è destinata all’insignificanza e alla emarginazione. Se la “Chiesa brucia” non vuol dire che il fuoco non possa destarci dal sonno in cui siamo caduti e non ci spinga ad alzarci fieramente, alla luce del nuovo giorno, che è Cristo.
don Orazio Barbarino
Arciprete di Linguaglossa