Nel dedalo della metropoli si nasconde quindi una nuova insidia, quella delle baby gang, gruppetti di adolescenti (o, a volte, perfino bambini), legati fra loro da codici mutuati dalla criminalità. Sono ragazzini cinici e spietati, a volte marcati da tatuaggi di appartenenza e si muovono alla ricerca di facili vittime da accerchiare e colpire o di azioni violente e distruttrici da celebrare.
Sono gli antieroi di questa società, della quale vivono ai margini in situazioni di degrado e in quartieri periferici. Sono figli della televisione commerciale, dei reality e dei videogames, sono i “dispersi” della scuola dove non vanno o collezionano ripetenze. Sono il segno tangibile dell’assenza di una rete educativa efficace e di un progetto sociale convincente, piccole spugne che assorbono senza filtro le seduzioni della trasgressione a tutti i costi. Sono animati da una rabbia profonda e spesso inconsapevole, ce l’hanno con la “normalità” e sono sperduti in un angosciante senso di abbandono.
Gli ultimi episodi segnalati dalla cronaca hanno sollevato di nuovo il velo dell’indifferenza (per quanto?) e siamo qui a interrogarci. Chissà se l’effetto alone di queste notizie avrà il tempo di durare oltre il contingente e se queste incomprensibili ferite sociali troveranno una cura all’interno di una comunità che ormai investe sempre meno nel progetto educativo globale.
Eh sì, perché è facile (anzi no, è anche difficile) occuparsi dei propri figli e pensare per loro un percorso formativo che li possa condurre a una età adulta serena e solida nei valori, ma non può essere sufficiente. Occorre un progetto comune e quel progetto non nasce dalle singole famiglie, è già enucleato nei principi di eguaglianza, di libertà e di pari opportunità presenti nella nostra Costituzione e dovrebbe trovare azioni concrete nella politica e nella scuola che fanno da quadro generale nell’assetto sociale.
Negli ultimi anni, però, a parte le grandi dichiarazioni di intenti e il brulicare di progetti antidispersione o di recupero sociale, i mezzi a disposizione per poter realizzare azioni educative efficaci sono stati sempre meno importanti. Si fa tanta teoria, ma nella pratica la scuola non trova ancora la strada della flessibilità pedagogica e spesso, quando la trova, non ha i mezzi economici per sostenerla.
La politica, invece, appare sempre più lontana. Si parla di “famiglia”, ma la famiglia non è solo una bella fotografia da mettere nei manifesti o uno slogan elettorale. La famiglia è anche quella con i figli difficili e adolescenti, la famiglia è quella che ha bisogno di fiducia e di speranza e soprattutto di aiuto.
L’orizzonte della speranza è buio pesto e i ragazzi hanno modelli a senso unico, trasgressivi e superficiali. La cassa di risonanza dei media dice che il successo e la trasgressione sono due facce della stessa medaglia e la trasgressione è una specie di missione da praticare a tutti i costi. Qualcuno ha scritto che i giovani di oggi crescono a “pane e Gomorra”, vanno in visibilio di fronte a orribili e blasfemi tatuaggi, amano lo stordimento, il sesso ambiguo e virtuale. L’aspetto più grave non è tanto il pullulare di messaggi fuorvianti o negativi, ma l’assoluta mancanza di strumenti per decodificarli.
Agli educatori mancano le forze e il linguaggio adeguato. C’è un muro preoccupante fra le generazioni, un dislivello comunicativo letale e una difformità preoccupante nei valori di riferimento.
Abbiamo dimenticato di parlare coi nostri ragazzi per troppo tempo. Abbiamo dimenticato di raccontargli chi siamo e come ci siamo arrivati.
Abbiamo dimenticato di insegnargli a chiedersi il “perché” delle cose.
Silvia Rossetti