L’impatto delle innovazioni e la forza delle tecnologie incide moltissimo sulla nostra vita e le conseguenze sul lavoro nel presente e nel prossimo futuro saranno rilevanti. Sarà richiesta un’istruzione qualificata per partecipare al mondo del lavoro.
Alcuni studiosi, come l’economista statunitense David Autor, sottolineano che lavori e professioni di livello medio e basso andranno estinguendosi, perché sostituiti da macchine automatizzate in grado di risolvere mansioni complesse: come il compito di un impiegato che deve confrontare pratiche simili inserite in un “data base” oppure l’azione di un pompiere che invece di affrontare in prima persona le fiamme potrà telecomandare a distanza un robottino con una webcam per esplorare la zona incendiata e capire se e come intervenire.
Molti lavori specialmente quelli più ripetitivi moriranno. Potrebbe essere una buona notizia, sarà più difficile annoiarsi.
Però ci saranno effetti sulla disoccupazione perché sarà erosa tutta una serie di mestieri che hanno caratterizzato un’epoca: dall’impiegato alla classica segretaria. Altri impieghi vedranno stravolgere i loro compiti come gli insegnanti che amplieranno molto l’utilizzo dell’e-learning (cioè una didattica online). Tutti richiederanno una preparazione più approfondita: già oggi l’infermiere è un laureato. Cambierà, dicono gli studiosi, anche la modalità di organizzazione del lavoro perché sarà più costruita sulla costituzione di squadre composte su misura per raggiungere un obiettivo. Sono previste molta fluidità e tanta flessibilità.
Per un ampio gruppo di persone la garanzia di lavorare si sposta dalla costanza della presenza alla competenza e dalla fedeltà aziendale alla capacità di affrontare problemi. La questione della precarietà dei lavoratori continuerà ad avere un forte peso, in un simile contesto.
Perché sono le conoscenze a imprimere un’accelerazione del cambiamento, l’istruzione e la formazione rimarranno due garanzie fondamentali per restare occupati, anche se non saranno sufficienti.
Proprio sull’istruzione gli italiani dovrebbero essere sensibilizzati, perché risponde a due criteri: rimanere dentro un mondo produttivo che basa la sua dinamicità sulla conoscenza; rendere occupabili le persone. Le statistiche provano già ora che la laurea aiuta a trovare lavoro: i neolaureati in cerca di lavoro sono il 17,7% contro il 30% dei diplomati, ma non investiamo in alta istruzione dato che la quota di laureati tra i 25 e i 34 anni in Italia è il 22%, mentre la media europea è al 37%, come affermano i dati di Almalaurea. Inoltre la nostra struttura produttiva di base, che è composta da piccole e medie imprese familiari per la maggior parte a proprietà, diffida della cultura: per Eurostat gli italiani manager laureati sono il 25%, meno dei diplomati 48% e di quelli con la licenza media il 28%. Negli altri Paesi non è così. I laureati che dirigono imprese sono al 51% di Germania o Regno Unito o al 60% della Spagna al 68% in Francia.
Se non si riesce a vincere questa diffidenza verso la cultura sarà difficile essere dotati di imprese con una conoscenza dinamica, in modo strutturale.
Alcuni studiosi, come l’economista statunitense David Autor, sottolineano che lavori e professioni di livello medio e basso andranno estinguendosi, perché sostituiti da macchine automatizzate in grado di risolvere mansioni complesse: come il compito di un impiegato che deve confrontare pratiche simili inserite in un “data base” oppure l’azione di un pompiere che invece di affrontare in prima persona le fiamme potrà telecomandare a distanza un robottino con una webcam per esplorare la zona incendiata e capire se e come intervenire.
Molti lavori specialmente quelli più ripetitivi moriranno. Potrebbe essere una buona notizia, sarà più difficile annoiarsi.
Però ci saranno effetti sulla disoccupazione perché sarà erosa tutta una serie di mestieri che hanno caratterizzato un’epoca: dall’impiegato alla classica segretaria. Altri impieghi vedranno stravolgere i loro compiti come gli insegnanti che amplieranno molto l’utilizzo dell’e-learning (cioè una didattica online). Tutti richiederanno una preparazione più approfondita: già oggi l’infermiere è un laureato. Cambierà, dicono gli studiosi, anche la modalità di organizzazione del lavoro perché sarà più costruita sulla costituzione di squadre composte su misura per raggiungere un obiettivo. Sono previste molta fluidità e tanta flessibilità.
Per un ampio gruppo di persone la garanzia di lavorare si sposta dalla costanza della presenza alla competenza e dalla fedeltà aziendale alla capacità di affrontare problemi. La questione della precarietà dei lavoratori continuerà ad avere un forte peso, in un simile contesto.
Perché sono le conoscenze a imprimere un’accelerazione del cambiamento, l’istruzione e la formazione rimarranno due garanzie fondamentali per restare occupati, anche se non saranno sufficienti.
Proprio sull’istruzione gli italiani dovrebbero essere sensibilizzati, perché risponde a due criteri: rimanere dentro un mondo produttivo che basa la sua dinamicità sulla conoscenza; rendere occupabili le persone. Le statistiche provano già ora che la laurea aiuta a trovare lavoro: i neolaureati in cerca di lavoro sono il 17,7% contro il 30% dei diplomati, ma non investiamo in alta istruzione dato che la quota di laureati tra i 25 e i 34 anni in Italia è il 22%, mentre la media europea è al 37%, come affermano i dati di Almalaurea. Inoltre la nostra struttura produttiva di base, che è composta da piccole e medie imprese familiari per la maggior parte a proprietà, diffida della cultura: per Eurostat gli italiani manager laureati sono il 25%, meno dei diplomati 48% e di quelli con la licenza media il 28%. Negli altri Paesi non è così. I laureati che dirigono imprese sono al 51% di Germania o Regno Unito o al 60% della Spagna al 68% in Francia.
Se non si riesce a vincere questa diffidenza verso la cultura sarà difficile essere dotati di imprese con una conoscenza dinamica, in modo strutturale.
Andrea Casavecchia