La religione può essere un forte volano di integrazione sociale per le persone immigrate e una risorsa per costruire la pace.
Ci sono almeno due motivi che favoriscono l’integrazione: in primo luogo l’appartenere a una comunità di credenti aiuta a costruire e mantenere relazioni in un nuovo ambiente di vita che rischia di isolare quelli appena arrivati; in secondo luogo esprimere la propria religiosità permette di conservare la propria identità spirituale, ma anche parte della propria cultura e delle proprie tradizioni. È importante mantenere un legame con la propria storia in un periodo di forte cambiamento personale.
L’Istat ha rilevato, su un campione rappresentativo della popolazione dei circa 6 milioni di cittadini stranieri in Italia, il livello di appartenenza e di pratica religiosa. Osserviamo dai dati riportati che il 56,4% degli immigrati, che hanno già compiuto 6 anni, è cristiano; il 26,3% è musulmano, a distanza si collocano i buddisti al 3%; poi ci sono tante altre religioni rappresentate dai sikh agli induisti fino agli animisti che insieme raccolgono il 3,9%; sono invece appena il 7,1% quelli che dichiarano di non appartenere a nessuna chiesa e nessun credo religioso. A caratterizzare l’appartenenza è il paese di origine delle persone: tra i cristiani si distinguono soprattutto due gruppi di confessioni: gli ortodossi provenienti dai Paesi dell’Est Europa e i cattolici provenienti dalle Filippine e dai paesi dell’America Latina; tra i musulmani spiccano i marocchini, poi gli albanesi e i tunisini.
L’alto livello di religiosità tra i cittadini stranieri è confermato dal giudizio positivo attribuito all’importanza nella propria vita della religione che, in una scala da 1 a 10, raggiunge il 7,7; si arriva a 8,2 tra i musulmani.
Anche la pratica religiosa è un tratto distintivo: tra i cittadini stranieri il 70,6% partecipa ai riti in luoghi di culto e circa l’80% prega durante la settimana. Se poi per i cristiani, in particolare per i cattolici, che superano l’84%, è prevalente la frequentazione delle chiese almeno una volta a settimana; per i musulmani e i buddhisti spicca la pratica della preghiera o di recita di formule sacre al di fuori dei riti religiosi.
Anche sotto l’aspetto religioso i flussi migratori portano alla formazione di una società italiana plurale. Diventa una situazione molto peculiare se consideriamo che il 28,8% degli italiani frequentano almeno una volta a settimana il luoghi di culto secondo le rilevazioni Istat; assistiamo, quindi, alla moltiplicazione della presenza di diverse comunità religiose in un contesto di forte radicamento della comunità cattolica sul territorio.
Valorizzare la cultura del dialogo tra le fedi può essere un’occasione di crescita per tutta la comunità civile, perché può aiutare a integrare nuovi cittadini. Allo stesso tempo può essere testimonianza di convivialità delle differenze, come le chiamava il vescovo don Tonino Bello, per costruire la pace nel reciproco riconoscimento.
Andrea Casavecchia