Spesa pubblica: quanto, come e perché?

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Nel 2006, durante il secondo governo Prodi, l’allora ministro all’Economia Tommaso Padoa Schioppa diede incarico al sottosegretario Nicola Sartor di verificare come lo Stato italiano spendesse i suoi soldi, in particolare nella sanità che, insieme alla previdenza, è la voce principale di spesa. Un incarico dettato dal fatto, appunto, che lo Stato non sa addirittura quanto spende; sul come, poi…

Sembrerà incredibile, ma era ed è così, Perché quel processo di spending review – di valutazione cioè della spesa pubblica – è morto con la fine dell’esecutivo Prodi. Intervenne il mantra del federalismo fiscale, che proprio su una diversa dislocazione e spesa delle risorse pubbliche era imperniato, e la cosa finì lì.

Come andò quell’esperienza? Tanto per dire: la Regione Lazio ignorava in sostanza i suoi livelli di spesa, quindi non li comunicò a Sartor. Altre quattro Regioni – tutte nel Mezzogiorno – tenevano e probabilmente tengono ancora oggi una contabilità a spanne. Con il vertice della Calabria, dove si spende (e spande) senza alcun controllo né rendiconto.

Ad onor del vero, il successivo ministro all’Economia, Giulio Tremonti, adottò un metodo assai spiccio che bypassava la valutazione stessa della spesa: tagliò. Ve li ricordate i “tagli lineari”? Significava: si spende il 10% in meno, senza guardare al come ma solo al quanto. Metodo sbagliato, dunque, ma giusto se si voleva recuperare immediatamente determinate somme.

Ora si ritorna al recente passato. Il premier Mario Monti ha affidato al ministro per i Rapporti con il Parlamento, Piero Giarda, il compito di verificare il finanziamento dei servizi alle amministrazioni centrali. Insomma, fare i conti di casa su circa 100 miliardi di euro che lo Stato spende per far funzionare la sua burocrazia “centrale”.

Lo Stato, di soldi in un anno ne spende ben di più: circa 800 miliardi di euro, di cui una settantina solo di interessi passivi sull’enorme debito pubblico che abbiamo. Ora si comincia dal voler verificare i contratti di fornitura di beni e servizi che scadranno da qui al prossimo anno, e a valutare alcuni programmi di spesa esistenti e considerati non proprio prioritari.

«Il processo di riordino dell’intera spesa pubblica richiederà anni», ha dichiarato il ministro Giarda. Già non è facile capire come si disperde il fiume delle nostre tasse nei mille rivoli di spesa pubblica; figurarsi poi se sarà facile capire la qualità stessa di quella spesa. Soprattutto se, nel frattempo, non si manterrà inalterata l’occhiuta attenzione verso la spesa stessa che un governo tecnico può avere, e uno politico magari un po’ meno.

Direte: ma perché non affrontare tutto l’ammontare della spesa pubblica? Semplice: la valutazione di buona parte della stessa è quanto di più politico possa fare la politica. Un conto è verificare se tutte le amministrazioni pubbliche seguano gli stessi criteri, ad esempio negli acquisti. Oppure capire se esistano doppioni, o situazioni di distribuzione “a pioggia” sterili di risultati concreti.

Un conto è stabilire se la scuola o la sicurezza meritino più o meno risorse di oggi; se le famiglie vadano più o meno sostenute; se la previdenza si debba muovere in questa o quella direzione; se la sanità sia una voce da tagliare o da incrementare; se devono prevalere le esigenze di un territorio o la redistribuzione a livello nazionale… Insomma è qui che la politica deve distinguersi, è qui che può disegnare la differenza. È qui che dovrà misurarsi la nuova politica italiana, una volta terminata l’esperienza di bonifica dei “tecnici”.

Nicola Salvagnin