Giorgio La Pira è uno degli uomini con cui bisognerebbe avere il coraggio di farsi i conti. Il nostro presente ci appare sempre più povero e contraddittorio a motivo del fatto che siamo venuti meno a un dovere. Cioè quello di tenerci legati alle figure dei maestri, dei profeti, camminando insieme a loro ravvivandone il filo della memoria. Così non è stato e non ci resta che piangere!
Nella liturgia cattolica, durante la celebrazione della Santa Messa, si fa dire a tutti i convenuti: “mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa”, ma poi nella vita come nella prassi, è mancato letteralmente il riconoscimento reale soprattutto delle nostre omissioni e responsabilità.
Siamo cresciuti tutti saputelli ma più mediocri, con l’aggravante di avere ostruito il passaggio agli altri, per una edificazione di una società migliore.
Le buone intenzioni non bastano. La strada dell’inferno, infatti, è lastricata di buone intenzioni!
La Pira, ma non soltanto lui, – basti pensare a Papa Giovanni, Mazzolari, Milani, Bensi, Saltini, Dolci, Carretto … – ebbe la consapevolezza di avere ricevuto una grande chiamata da Dio e di avervi corrisposto con la forza delle scelte, anche se dolorose, con una vita pienamente vissuta nel cuore della città, in mezzo agli altri, a difesa del futuro delle generazioni, con uno sguardo lungimirante.
Nel 1945, così si esprimeva Giorgio La Pira: “siamo dei laici: cioè delle creature inserite nel corpo sociale, poste in immediato contatto con le strutture della città umana. Siamo padri di famiglia, insegnanti, operai, impiegati, industriali, artisti, commercianti, militari, uomini politici, agricoltori e così via. Il nostro stato di vita ci fa non solo spettatori ma necessariamente attori dei più vasti drammi umani. Come possiamo sottrarci ai problemi che hanno immediata relazione con la nostra opera? … Cosa c’è da fare? Si resta davvero come stupiti quando, per la prima volta, si rivela alla nostra anima l’immenso campo di lavoro che Dio ci mette davanti: messis quidem multa. C’è da trasformare in senso cristiano tutti questi vastissimi settori dell’azione umana che sono in tanta parte sottratti all’ influenza della grazia di Cristo”.
A spingermi a scrivere queste poche righe è stato l’aver appreso che un mio parrocchiano, Salvatore Currenti, maestro artigiano del marmo, linguaglossese doc, ha avuto il privilegio di conoscere Giorgio La Pira più di me e meglio di me!
Io mi gloriavo di aver incontrato La Pira una volta a Firenze e invece … Ancora una volta nella nostra comunità si scoprono delle ricchezze che aspettano solo di essere raccontate.
Era il 1966 a Firenze, quando alle cinque del mattino del 3 novembre il cielo cominciò a riversare sulla città una pioggia che continuò incessante per ben 18 ore. La notte del 4 novembre l’Arno ruppe gli argini. Firenze, come racconta lo stesso La Pira in una sua intervista del tempo, fu letteralmente sommersa. Non un’alluvione ma una sommersione. Cantine, case, palazzi, musei, chiese, giardini, parchi, tutto fu sommerso dal fango e dal nero della disperazione. Eppure, nella tragedia, accadde qualcosa di straordinario. Moltissimi giovani provenienti non solo dall’Italia ma da tutte le parti del mondo, vi accorsero e si misero in azione per salvare dalla distruzione del fango la città e il patrimonio storico e culturale che essa custodiva.
Proprio per tale evento, il soldato Salvatore Currenti del XVII Reggimento di Fanteria del Battaglione d’assalto di stanza a Cesano di Roma fu inviato a Firenze. E gli fu assegnato il compito di accompagnare per la città Giorgio La Pira durante quei terribili giorni. Ebbe così il privilegio di stare con lui, entrando a far parte, anche se a diversi titoli, di quei soccorritori che salvarono Firenze, battezzati poi come gli “Angeli del fango”.
Sono poche le parole che sono fuoriuscite dalle labbra, quasi serrate dalla commozione, dell’amico Currenti. Ma valgono esse come preziosa testimonianza di un uomo che ha compreso come i piccoli fatti della vita sono tutti in colloquio con il cielo.
“Sono molto emozionato! Sento così forte il ricordo di quei memorabili giorni e di quella esperienza, a tal punto che mi mancano anche le parole per raccontarla! Posso dire che sono stato con Giorgio La Pira, accompagnandolo per tutta Firenze, notte e giorno, per una settimana intera. Che persona squisita, generosa, buona, semplice, autorevole, umile, l’indimenticabile Giorgio La Pira! Che settimana speciale fu quella!”.
Ecco il cuore grande di due siciliani che, con una Jeep dell’esercito italiano, portarono soccorso nella disperazione più nera di una città messa letteralmente in ginocchio. E soprattutto continuarono a “sperare contro ogni speranza”.
“La mia vita, mi ha confidato il soldato di ieri e il nonno felice di oggi, è stata sempre una bella e dura avventura, vissuta con passione, lavorando sodo. A sette anni come apprendista, poi come operaio, a 21 anni come datore di lavoro. Il 24 giugno 1972 mi sono sposato e da quell’unione sono arrivate due meravigliose bambine. Oggi una è una biologa nutrizionista e l’altra è un ingegnere dell’INGV”.
Le due vite, seppur molto diverse, da una parte quella del fine giurista, sindaco e politico Giorgio La Pira e dall’altra, quella di un umile artigiano, buon padre e marito, Turi Currenti, costituiscono la sintesi del pensiero lapiriano, perché l’ideale è quello di condividere con gli altri, nella città, come casa di tutti, la vita secondo una vocazione, nella dignità dei figli di Dio, inverando “l’attesa della povera gente”, secondo quel cattolicesimo sociale che venne maturandosi in Italia, dopo la “Rerum novarum” di Papa Leone XIII.
Giorgio La Pira è stato senza alcun dubbio un uomo di fede, di speranza, amato e amante di Dio. “Uno che ha il carisma di essere sempre giovane e che ha compiuto tanto bene rimanendo fedele sempre alla ricchezza dell’ispirazione cristiana”. Così lo definì Papa Paolo VI ad un’udienza generale del 1976.
Negli ultimi giorni oscuri della sua esistenza, egli – a quanto ci ha testimoniato la fedele Fioretta Mazzei – pur vedendo nero davanti a sé, sempre più nero, non smise mai di credere nelle parole espresse dai bellissimi versi di Edmond Rostand.
“E’ di notte che è bello credere nella luce / dobbiamo forzare l’aurora a nascere, credendoci”. Lui, certamente ci ha creduto. Crediamoci allora anche noi.
don Orazio Barbarino
Arciprete di Linguaglossa