Era tradizione nel mio paese che il giorno dei defunti, il 2 novembre, tutti i bambini trovassero appena svegli dei regali vicino al loro letto. A quei tempi non era facile per nessuna famiglia contadina acquistare regali belli e pronti. Mentre era uso molto frequente che, in molte occasioni, essi si improvvisassero mediante oggetti manufatti in casa, adatti come regali per i piccoli. I bambini si preparavano ad accogliere il dono dei morti pregando per i defunti della famiglia, i nonni, gli zii, i vicini di casa, le persone che si erano conosciute in vita. Sulla base della familiarità e del legame affettivo con il defunto il regalo acquistava un significato ed un’attesa particolare. Io trovano regolarmente i miei regali ogni anno perché il nonno paterno, era morto prima che io nascessi e la nonna materna era morta nel mese di agosto del 1945, quando io avevo solo 2 anni e mezzo.
Sia la mamma che la zia si sbizzarrivano per inventare un regalo per la loro piccola e mettevano alla prova la mia fantasia di bambina per capire i miei desideri. Qualsiasi sorpresa mi dava gioia e mi faceva esultare per qualche giorno. Ricordo che una vigilia dei morti rimasi in attesa del loro arrivo con i doni fino a notte fonda, nonostante la zia mi sollecitasse ad andare a dormire. Mi diceva che i morti non si volevano fare vedere quando arrivavano con il regalo, anzi, loro non sarebbero mai venuti e si sarebbero portato indietro il regalo, fin quando io fossi rimasta sveglia. Quando finalmente crollai dal sonno e mi rimboccarono le coperte, la zia cominciò a preparare il regalo per me. Doveva preparare un cestino dove depositare il regalo, custodito per tale occasione.
Il regalo dei morti si chiamava anche il dono “de’ novi cosi”, perché erano nove i frutti raccolti per l’occasione, conservati gelosamente e da offrire ai fortunati fanciulli. Si trattava di fichi secchi, mandorle, noci, fichi d’india, uva passa, mostarda, noccioline, sorbe, cotognata, ameddi, ‘nzalori. Per quella occasione, la zia aveva selezionato alcune cartoline illustrate, belle, panoramiche e floreali, che avrebbero dovuto fare da cestino a quei frutti. Il cestino si componeva di una base, formata da cartoline, ritagliate e cucite fra di loro a punto occhiello, con filo di seta colorato. A questa base si aggiungevano lateralmente almeno cinque cartoline da formare un pentagono o un esagono, a seconda della grandezza di ciò che esso doveva contenere. Un vero capolavoro artigianale, da ammirare nei suoi colori e disegni sia per la bellezza delle fotografie o immagini illustrate in ciascuna, sia per la varietà dei frutti che vi si trovavano ogni anno, diversi. Quella notte la zia occupò diverse ore ad allestire quel cestino. Ma quale fu la mia gioia la mattina, quando, aprendo gli occhi, ai piedi del letto, vidi un tavolo apparecchiato da farmi esultare: “Allora è vero! Sono i morti che vengono nella notte, perché ieri sera non c’era niente sul tavolo!”. La zia fu tanto felice di questa esclamazione al punto che me la ripeteva sempre, anche quando io ero orami grande da sapere che i regali dei morti erano frutto dei sacrifici dei vivi. Lei, ricordando la gioia della mia infanzia, frutto del suo sacrificio, riviveva l’emozione del dono e della gioia, ogni volta.
Quando cominciavo a crescere, qualcuno dei bambini del vicinato un poco più grande o più scaltro cominciava a insinuare il sospetto che i regali erano frutto dei vivi e non dei morti. Io, pur di ricevere il regalo, continuavo a dichiarare senza vergogna alcuna che erano i morti a portare il dono.
Teresa Scaravilli