Il recente ritrovamento di un nuovo esemplare di pesci luna (Mene rhombea – in figura 1) nei depositi fossiliferi di Bolca (Monti Lessini, Verona) ha stimolato un nuovo studio paleontologico che ha permesso di ricostruirne l’aspetto e determinarne la dieta e l’habitat.
La ricerca- si legge in una nota stampa – è stata sviluppata da un team italo-irlandese guidato dalla ricercatrice Valentina Rossi della University College Cork, Irlanda e dal prof. Giorgio Carnevale del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino. E pubblicata sulla prestigiosa rivista scientifica “Palaeontology”.
I sedimenti fossiliferi di Bolca si sono accumulati nell’Eocene (circa 48 milioni di anni fa) in un mare tropicale che un tempo esisteva dove oggi sorgono i Monti Lessini. E sono ora conosciuti in tutto il mondo, da esperti e appassionati di paleontologia, per la straordinaria preservazione dei fossili che in essi sono conservati.
“I fossili rinvenuti dal sito della Pesciara sono definiti eccezionali. Perchè presentano, oltre ai resti scheletrici, anche l’evidenza di tessuti non-mineralizzati come pelle, occhi, muscoli e organi interni”. Così ha dichiarato il prof. Giorgio Carnevale, esperto delle faune di Bolca. L’esemplare studiato appartiene alla famiglia dei menidi, comunemente chiamati pesci luna per via del loro corpo appiattito. Al giorno d’oggi è rappresentata dalla sola Mene maculata, una specie che vive in acque poco profonde nell’Oceano Indo-Pacifico.
Gli antenati dei pesci luna
“Di esemplari di Mene rhombea ne sono stati trovati moltissimi, tanto che si può definire una vera e propria icona di questi giacimenti fossiliferi.- Così ha osservato Roberto Zorzin, del Museo Civico di Storia Naturale di Verona. – “Ma l’esemplare che abbiamo avuto l’opportunità di studiare è tra i meglio conservati mai rinvenuti”.
Sin dalle prime osservazioni effettuate presso il Museo Civico di Storia Naturale di Verona è stato chiaro per gli studiosi che si trattasse di un esemplare eccezionale (Fig. 1).
“Tre prominenti strie longitudinali di colore scuro alternate ad altrettante di colore più chiaro erano ben evidenti ad occhio nudo sui resti della pelle dell’animale. Grazie all’utilizzo di un microscopio ci siamo accorti che nell’addome erano presenti i resti del suo ultimo pasto. Ma anche le tracce dell’intestino e altro materiale organico”, ha spiegato il prof. Carnevale.
I melanosomi nel fossile
Ulteriori analisi morfologiche e chimiche di dettaglio hanno confermato la presenza di melanosomi nelle strie scure della pelle, nell’occhio e anche in alcune zone dell’addome. I melanosomi sono dei microscopici organelli cellulari contenti la melanina, il pigmento che dona il colore alla pelle, occhi, capelli e piume.
“Oggi sappiamo che nei vertebrati i melanosomi possono essere anche interni. Ovvero contenuti all’interno degli organi, per esempio nel cuore, nel fegato e nei reni, per citarne alcuni”. Così ha dichiarato la ricercatrice Valentina Rossi. – “Trovarli in un fossile ci permette di ricostruirne il colore della pelle e l’anatomia interna”.
Lo studio comparativo con pesci attuali, la specifica distribuzione anatomica e la distinta geometria dei melanosomi nel fossile suggeriscono che questi organelli provengano da diversi tessuti. In particolare da pelle, rene, peritoneo e probabilmente cuore o fegato. L’analisi del contenuto dello stomaco invece ha rivelato la presenza di piccole ossa di pesce simili a quelle di una sardina. Indicando così che il Mene rhombea avesse, almeno in parte, una dieta piscivora.