Certo che il “maestro” Guerra di strada ne aveva fatta, dalla natia Santarcangelo di Romagna, dove era nato nel 1920, fino alla celebrità internazionale. Già nel campo di concentramento dove era stato internato aveva preso l’aria di aedo, di cantore della terra d’origine, un novello Omero romagnolo che teneva alta la cultura – e la vita – dei suoi conterranei, e non solo loro. E non a caso si era poi laureato con una tesi sulla poesia dialettale. Poi divenne scrittore in dialetto e in italiano, e soprattutto sceneggiatore, e iniziò la fortunata stagione del rapporto con il cinema, un po’ come l’altro grande scrittore per lo sguardo, Ennio Flaiano.
Fellini, i Taviani, Antonioni, sono alcuni tra i nomi più indicativi per capire il livello di collaborazione tra Guerra e il cinema, un livello che lo portò alla nomination per l’Oscar con il capolavoro di Antonioni, “Blow up”. Il che rivela la capacità di adattamento e la modernità di Guerra, in grado di cimentarsi in un soggetto lontanissimo dall’elegia romagnola: la “Swinging London” degli anni del beat, delle minigonne e dei capelli lunghi.
Ma Guerra ha firmato altri capolavori come “Deserto rosso”, “Zabriskie Point”, per il “solito” Antonioni, e “Amarcord” per Fellini, questo sì nelle sue antiche corde di poeta epico romagnolo.
Ora, a 92 anni, questo pezzo di storia del cinema, della letteratura e del costume italiano se ne è andato. Ma grazie a lui rimangono il sapore – e le parole, oltre che le immagini – di un’indimenticabile età della nostra cultura, quando il Belpaese era capace di produrre autentici capolavori del cinema – e delle sue connessioni con la poesia, la letteratura e l’arte in genere – e di presentare alcuni registi, scrittori e sceneggiatori come autentici maestri di quegli anni, e non solo di quegli anni: erano episodi in grado di essere ricordati come pezzi di cinema – e di cultura – al di là dei vincoli e delle mode imposti dai tempi.
Marco Testi