Una vicenda complicata / Normalizzare la Libia per salvare la Siria. L’Isis è il nemico in comune

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Troppe le omissioni degli attori in campo. Era imperativo evitare l’internazionalizzazione del conflitto ed esercitare ogni pressione su Assad perché accettasse una soluzione negoziata. Su questo, Europa, Stati Uniti, Russia e Iran avrebbero dovuto impegnarsi insieme. Il ritorno sulla scena di Putin può consentire una ripresa incisiva dell’azione diplomatica 

Dopo la decisione del governo russo di incrementare il sostegno militare al regime di Assad nella guerrav2-isisp civile siriana, molti hanno temuto che la “terza guerra mondiale a pezzi” citata da Papa Francesco si stesse per realizzare. In realtà, la mossa di Putin questa volta non necessariamente peggiora lo scenario. Anzi, per quanto nasca dal preciso interesse strategico di mantenere la base navale di Tartus in territorio siriano e dalla volontà di riaffermare un ruolo politico e militare globale per la Russia, Putin ha dimostrato già in passato di avere sulla Siria una visione più chiara di molti leader occidentali.
Proviamo a mettere qualche punto fermo nella complicata vicenda siriana. La prima cosa da tenere presente è che la situazione attuale è veramente molto complessa, quasi irrisolvibile. Molti sono gli attori che con politiche miopi o scellerate hanno contribuito a mettere in scena la tragedia. Prima di tutto Assad, che governando con la violenza ed escludendo dall’accesso al potere interi gruppi sociali, ne ha alimentato il risentimento e l’indignazione, spingendoli verso la mobilitazione armata. Sbaglia dunque chi adesso vede nel dittatore di Damasco un salvatore della patria. Sbaglia anche chi si lamenta del fatto che Papa Francesco e Putin convinsero Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia a non bombardare la Siria nel 2013. Una letteratura consolidata e la storia recente dimostrano che quel tipo d’intervento aumenta il livello di violenza senza condurre a una soluzione politica stabile sul terreno. Basta vedere cosa hanno ottenuto le stesse tre potenze in Libia per rendersene conto.
Se non bombardare allora era giusto, c’erano però altre cose da fare nel frattempo per evitare di giungere alla situazione attuale. Soprattutto, era necessario portare avanti una forte azione diplomatica su più fronti, possibilmente in sede Onu, così che tutta la comunità internazionale e l’opinione pubblica mondiale si concentrassero sul conflitto siriano, che rischia di cambiare faccia per sempre al Medio Oriente. Si doveva impedire una buona volta alle monarchie del Golfo di fare il doppio gioco, finanziando e sostenendo l’Isis per affermare l’egemonia sunnita in Medio Oriente in funzione anti-iraniana. Era necessario pretendere che la Turchia impedisse il copioso afflusso di combattenti provenienti dall’Europa e che si impegnasse sinceramente per combattere il nascente califfato, invece di cogliere l’occasione per organizzare l’ennesima campagna contro i curdi. Era imperativo evitare l’internazionalizzazione del conflitto ed esercitare ogni pressione su Assad perché accettasse una soluzione negoziata. Su questo, Europa, Stati Uniti, Russia e Iran avrebbero dovuto impegnarsi insieme.
Tutto ciò non è avvenuto e adesso ci troviamo in una situazione di stallo che è già costata centinaia di migliaia di vittime e milioni di profughi, di cui solo una minoranza è giunta finora in Europa perché la maggior parte è ancora in Libano e Giordania. L’Isis ha di fatto cambiato i confini del Medio Oriente, è presente in Libia, stringe alleanze con Boko Haram in Nigeria, mira in prospettiva a destabilizzare l’Egitto. In questo grande intreccio in cui gli attori locali sono spesso cinici e spietati, mentre quelli esterni sono miopi o con interessi inconfessabili, è molto difficile muoversi. Come la Germania nazista, l’Isis è mosso da un’ideologia che lo spinge in una lotta all’ultimo sangue. La Siria ha bisogno di recuperare una struttura statale, ma Assad ormai è compromesso e nessuno dei gruppi ribelli non-jihadisti (ammesso che ne rimangano) ha la forza di porsi come alternativa. Si potrebbe pensare a un passaggio di consegne concordato con una figura meno compromessa e aprendo il regime a un maggiore pluralismo, ma servirebbe lo sforzo diplomatico che finora non c’è stato, in condizioni peggiori e con un notevole coinvolgimento anche a livello militare. L’alternativa è rassegnarsi a un Medio Oriente modificato con la forza, sperando di non dover organizzare in futuro la “terza guerra mondiale unificata”. Anche in quest’ottica, rimane urgente fare ogni sforzo per riportare l’ordine almeno in Libia.

Stefano Costalli