Unioni civili / Il “dopo Family Day” secondo il politologo Roberto Cartocci: “Diamo respiro a tutte le famiglie”

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Mentre in aula si discute infuocatamente sul ddl Cirinnà, Roberto Cartocci, professore ordinario di Scienza della politica all’Università di Bologna esorta a non guardare “di chi siano figli i nostri figli”, ma a “dare respiro a tutte le famiglie”, perché “un Paese serio difende i figli e basta”. Dopo il Family Day, bisogna “cambiare sguardo” sulla famiglia, magari partendo dall’articolo 31 della Costituzione per far uscire l’Italia dal suo “deserto demografico”. “Perché le soluzioni si cercano andando avanti, non andando invece”. La famiglia “tradizionale” diventa “passatista” solo se è brandita come paradigma esclusivo: ma per tutti, laici e cattolici, “la famiglia è quella lì, ed ha bisogno di essere protetta”.

“Non guardiamo di chi siano figli i nostri figli, ma cerchiamo di dare respiro alla famiglia, a tutte le senatoDdlCirinna2feb2016_0099_resize-755x491famiglie”. Il “dopo Family Day”, per Roberto Cartocci, professore ordinario di Scienza politica all’Università di Bologna, si sintetizza in questo invito. “Un Paese serio – incalza mentre il dibattito sul ddl Cirinnà infuoca l’aula del Senato – politicamente potrebbe bypassare come, dove e quando i figli sono nati. Un Paese serio difende i figli e basta”. L’invito è a “cambiare sguardo” sulla famiglia, magari partendo dall’articolo 31 della Costituzione per mettere mano a misure in grado di far uscire il nostro Paese dal “deserto demografico” in cui non da oggi è impantanato. “Perché le soluzioni – spiega – si cercano andando avanti, non andando ‘invece’”. No, allora, alla logica antagonista che vede l’idea di famiglia “tradizionale” sempre ed esclusivamente come sinonimo di “passatista”, da una parte, o di “paradigma esclusivo”, dall’altra: “La famiglia, per laici e cattolici, è quella lì, ed ha bisogno di essere protetta, perché tutta la società ha da guadagnare da questa protezione”. Anche la questione dei diritti, puntualizza però Cartocci, è una questione molto seria e va al di là del dibattito sulla necessità di cambiare o meno la nostra Carta Costituzionale.

Nella rivendicazione dei matrimoni gay, ha osservato Galli Della Loggia, i principi non c’entrano, c’entra l’evoluzione storica della nostra società. Siamo di fronte al destino di una “Costituzione a termine”, imposta a colpi di maggioranze parlamentari estremamente variabili e fluide?

Perché mai? C’entra poco il problema costituzionale. La nostra è una Costituzione piuttosto rigida, ha bisogno di grandi sforzi per essere modificata e la legge in discussione al Senato prova quanto sia difficile cambiarla nella lettera. L’Italia, nel frattempo, è cambiata moltissimo dal 1948, specialmente quell’area che si chiama sessualità, famiglia, riproduzione, condizione della donna, se non altro perché l’Unione europea garantisce una profonda libertà di movimento all’interno dei suoi confini, dove esistono contesti istituzionali un po’ diversi. Non c’è bisogno, in altre parole, che si cambi la Costituzione, perché la libera circolazione nell’Unione europea consente ai cittadini di scegliere i contesti per loro più congeniali. Il mondo è diventato più complicato, e i divieti non tengono conto del punto di vista del comportamento individuale: ognuno è liberissimo di manifestare in piazza o altrove le proprie preferenze, ma anche gli altri hanno diritto di farlo e di metterle in pratica.

Il diritto, in altre parole, secondo lei deve regolamentare dei comportamenti, e se non lo fa il rimedio è peggiore del male. Non è indifferentismo dei valori?  

Non parlerei di indifferentismo per i valori, ma di adeguamento dei valori: possiamo anche parlare di eccesso di libertarismo, ma è un punto di vista. Trenta o quarant’anni fa gli omosessuali facevano una vita molto grama, non potevano esporsi o dichiararsi pubblicamente. Non credo che l’emersione garantita dalla legge incentivi la diffusione dell’omosessualità: in passato molti di loro erano repressi, non hanno mai confessato a sé stessi e agli altri la loro natura. Noi non cattolici non saremo magari mai interessati alla possibilità dell’inseminazione artificiale, e magari siamo anche contrari in linea di principio al mercanteggiamento degli embrioni. Ma ciò non toglie che ci sarà qualcuno che lo farà: impedirlo è come voler svuotare il male con un cucchiaio.

Il cammino di rivendicazione dei diritti individuali è difficile da arrestare: se c’è un riferimento per antonomasia alle radici cristiane, è proprio la valorizzazione della persona singola.

Nella visione cristiana ciascuno individuo è il mondo, è una potenzialità di libertà e di doni nei confronti degli altri.

Olivetti, su “Avvenire”, ha proposto di mettere al centro del dibattito l’articolo 31 della Costituzione, nel quale si dispone che la Repubblica agevoli “con misure economiche la formazione della famiglia, in particolare numerosa”. Potrebbe essere un invito, secondo lei, a recuperare il principio di realtà? Secondo i dati Istat, su 14 milioni di famiglie stabili, 7.513 sarebbero famiglie monoparentali, con 529 figli nati.

Questo sì, potrebbe essere un modo per uscire dallo stallo. Nel paradosso di un partito, come la Democrazia Cristiana, che ha governato per 40 anni, l’Italia è stato il primo Paese a vedere il crollo della natalità e ad essere rimasta in questo deserto demografico. Al di là della Costituzione, c’è la politica che deve dare corrente a questi diritti e alla loro centralità. Invece non ha fatto niente.

Ci accapigliamo per numeri ridottissime – dietro i quali ci sono tuttavia grosse questioni etiche – ma il problema della famiglia è un problema in cui fondamentalmente i cattolici devono ringraziare se stessi, i loro rappresentanti politici, se il mondo delle famiglie con figli è mortificato.

Si può uscire dalle secche del muro contro muro?

Bisogna cambiare sguardo. Non guardiamo di chi siano figli i nostri figli, ma cerchiamo di dare respiro alla famiglia, a tutte le famiglie, in modo che tutti possiamo godere della presenza dei nostri figli e non ucciderci dalle sei di mattina alle undici di sera. Non si possono mettere sullo stesso piano queste famiglie e quelle che hanno a loro disposizione quattro nonni. Crescere un figlio e lavorare, in Italia,  è una delle cose più complicate, ed avviene nella totale indifferenza delle istituzioni.

Perché quando si usa l’espressione “famiglia tradizionale” si è spesso tracciati di “passatismo”?

È un tema politicamente sensibile, che pone le famiglie una contro l’altra. La famiglia tradizionale diventa “passatismo” perché c’è qualcuno che la presenta come paradigma esclusivo: se si evita questo atteggiamento, la famiglia torna ad essere la famiglia. Ognuno è perfettamente in grado di stabilire da sé le sue prospettive. La famiglia, per laici e cattolici, è quella lì, e ha bisogno di essere protetta, perché tutta la società ha da guadagnare da questa protezione. Un Paese serio  politicamente potrebbe bypassare come, dove e quando i figli sono nati. Un Paese serio difende i figli e basta. Perché le soluzioni  si cercano andando avanti, non andando “invece”.

M. Michela Nicolais

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