Nuovi venti di protesta in Nordafrica. Non chiamiamole nuove primavere arabe. Non per scaramanzia, giacché il loro successo (iniziale) è stato in realtà dirompente, bensì perché tante cose sono cambiate dall’inizio decennio. Parliamo delle contestazioni esplose nelle settimane scorse in Algeria e in Sudan, due Paesi che, a dispetto della scarsa copertura mediatica in Italia, sono estremamente importanti nelle dinamiche del Nordafrica. Il quale, ricordiamo, resta sempre il nostro vicinato di casa.
Protesta in Nordafrica: Algeria e Sudan in subbuglio
Entrambi i Paesi sono stati retti, fino a pochi giorni fa, da due autocrati di lungo corso: Abdelaziz Bouteflika (in carica dal 1999) per l’Algeria, e Omar al-Bashir (al potere dal 1989) per il Sudan. In entrambi, manifestazioni molto estese hanno chiesto e ottenuto, nel giro di poche settimane, la fine dei rispettivi regimi. Un successo inaspettato, soprattutto a Khartoum (ad Algeri, invece, si attendeva da tempo la fine dell’ottantaduenne presidente – malato da anni). Eppure, le dimissioni di Bouteflika e al-Bashir hanno rischiato (e stanno tuttora rischiando) di non avere un seguito democratico. Almeno non quello auspicato dai dimostranti.
In ambedue i casi, infatti, i militari – veri registi del potere – hanno provato ad instaurare una transizione “morbida”, attraverso l’assegnazione del nuovo incarico presidenziale a uomini legati ai vecchi regimi. In Algeria, Abdelkader Bensalah (77 anni, ed ex presidente del Senato) è stato scelto per la successione ma sta già incontrando, in queste ore, una tenace opposizione da parte delle proteste di piazza, contrarie a qualsiasi tentativo di perpetuazione del sistema esistente.
Le accuse contro al-Bashir e il suo successore
Del resto, gli algerini possono ispirarsi a ciò che è appena avvenuto in Sudan: lì il candidato scelto dai militari per sostituire al-Bashir (in foto a destra), Awad Ibn Ouf, ha dovuto lasciare il nuovo incarico dopo appena 24 ore, a fronte della continuazione della rivolta (16 le persone uccise da giovedì). In sua vece si è già insediato Abdel Fattah Burhan, un generale sessantenne che però si è distinto. Innanzitutto, per il dialogo che ha instaurato in queste settimane coi manifestanti. Ma, soprattutto, per il fatto di essere l’unica figura militare di spicco, in Sudan, a non essere incriminata dalla Corte penale internazionale dell’Aja.
Va ricordato, a tal proposito, che l’ormai ex presidente sudanese al-Bashir è accusato dalla stessa Corte di crimini di guerra e contro l’umanità per il conflitto in Darfur (una guerra che ha causato, direttamente o indirettamente, quasi un milione di vittime). Dalle ultime informazioni, tuttavia, sembrerebbe che le nuove autorità di Khartoum non siano favorevoli all’estradizione di Bashir. Questo secondo il mandato d’arresto emesso nel marzo del 2009.
Venti di protesta in Nordafrica: la speranza di un cambiamento
Favorite dalla crisi economica, dalla disoccupazione e da una massiccia componente demografica giovanile (il 30% degli algerini e addirittura il 43% dei sudanesi hanno meno di 15 anni), le proteste di questi giorni hanno acceso i riflettori sul Nordafrica, molto più dinamico e desideroso di radicali cambiamenti di quanto comunemente si creda. Certo, non si tratta più del 2011. Quella esperienza fu realmente rivoluzionaria perché coinvolse, con un effetto a catena, decine di Paesi del mondo arabo. E non solo (anche se soltanto in pochi casi si è tradotta in un cambio di potere). Stavolta, sia i sintomi del malessere che le sue cure sembrerebbero più circoscritti.
Aprendo la possibilità a cambiamenti pacifici e probabilmente meno destabilizzanti. L’esperienza delle già citate primavere arabe, tuttavia, consiglia prudenza sui futuri sviluppi politici. Viste dall’esterno, le agitazioni nordafricane suscitano timori internazionali relativi alla stabilità dell’area. Restano dunque più probabili, da parte delle maggiori potenze, gli sforzi a sostegno della continuità politica anche a scapito della democrazia, della trasparenza e dell’alternanza al potere. Specie in una regione già sconvolta dalla crisi della Libia (peraltro l’unico Paese, ironia della sorte, a confinare sia con l’Algeria che con il Sudan). Ma ciò che sta avvenendo a Tripoli meriterà una riflessione a parte.
Pietro Figuera