Francesco Cecere, psichiatra e psicoterapeuta: “L’educazione non vuol dire fare bei discorsi: è cercare di avere stili di vita e comportamenti coerenti, ammettendo i propri limiti e imparando anche a correggere gli errori. I giovani hanno bisogno di verità, di sapere cosa è vero e cosa è falso”. L’invito a stare alla larga dalla “trappola della felicità”
Esistono molti “ex”, ma mai “ex” padri o “ex” madri: si è genitori per sempre, anche da morti. Parte da qui Francesco Cecere, psichiatra e psicoterapeuta di lungo corso, specializzato nel trattamento e nella prevenzione dei disturbi del comportamento alimentare presso la Als Roma E, per declinare la parola “educazione”, una delle cinque “vie” per il nuovo umanesimo proposte nella traccia del Convegno di Firenze. Lo psichiatra raccoglie la provocazione del Papa, che nell’udienza del 20 maggio ha stigmatizzato il fatto che i genitori di oggi tendano ad “autoescludersi” dalla vita dei loro figli, delegando l’educazione agli “esperti”. Dall’esilio educativo, padri e madri possono retrocedere tornando a fare da “bussola” ai propri figli: “L’educazione non vuol dire fare bei discorsi: è cercare di avere stili di vita e comportamenti coerenti, ammettendo i propri limiti e imparando anche a correggere gli errori. I giovani hanno bisogno di verità, di sapere cosa è vero e cosa è falso”. Anche quando ha la “V” maiuscola, la verità non può mai essere “un bastone da dare in testa agli altri: è qualcosa che si costruisce dall’incontro, dalla relazione”. Prima, però, bisogna perdonarsi e perdonare, stando alla larga dalla “trappola della felicità”.
Che tipo di madri e padri hanno alle spalle gli adolescenti che incontra ogni giorno sul suo posto di lavoro?
“Oggi direi che siamo in presenza di una rivalutazione, all’interno della psichiatria, riguardo al rapporto dei nostri pazienti con i loro rispettivi genitori: in passato i genitori venivano allontanati il più possibile dai figli perché considerati la causa delle loro malattie, oggi all’opposto si è acquisita la consapevolezza che qualsiasi trattamento terapeutico sui ragazzi ha un’efficacia soltanto se prevede anche il coinvolgimento attivo della famiglia. Sempre di più, in ambito anche psichiatrico, si stanno diffondendo percorsi basati sul buon senso, piuttosto che semplicemente su teorie astruse o complicate, come si è fatto per tanti anni”.
Cosa significa procedere sulla base del “buon senso”, in psichiatria?
“Sicuramente non significa procedere ‘alla carlona’, ma al contrario adottare un percorso terapeutico basato su quella che è la cultura scientifica di oggi e sui passi avanti compiuti in ambiti come la genetica e la biologia. Il filtro, però, è appunto il buon senso, quello dei tempi antichi, basato sulla cultura contadina dei nostri nonni, che aveva il sapore della terra. È questa ‘cultura di buon senso’ che è venuta a mancare per troppo tempo in ambito psicoterapeutico e psichiatrico. Nell’insorgere, ad esempio, di disturbi come l’anoressia o la bulimia giocano un ruolo importante anche gli aspetti relazionali. Dichiarare, come si faceva fino a qualche anno fa, che la causa dell’anoressia fosse da imputare alla mamma intrusiva e al papà assente è una fesseria enorme, che non ha nessun fondamento scientifico: per la riuscita terapeutica, in questo genere di patologie c’è bisogno di un coinvolgimento – con tanto buon senso – della famiglia, a tutti i livelli”.
Ci sono buone pratiche che, nel trattamento delle patologie degli adolescenti, possono aiutare i padri e le madri a riappropriarsi del proprio ruolo educativo?
“Nel servizio che la nostra Asl offre per curare i disturbi alimentari, oltre che per gli adolescenti ci sono gruppi dedicati solo ai genitori. Inoltre, si organizzano attività in cui genitori e figli consumano un pasto insieme, opportunamente affiancati dagli operatori: abbiamo comprato un tavolo da Ikea e allestito una piccola cucina dove poter preparare i cibi. Lo facciamo in proprio, con i nostri mezzi, ma molto volentieri, perché ne constatiamo l’efficacia. In questo modo, l’indice di massa corporea migliora di molto: una ragazza di 30 chili, dopo uh anno di questo tipo di trattamento arriva a pesare tra i 40 e i 45 chili. Nel nostro lavoro siamo affiancati da una onlus, ‘La fenice Lazio’, che si occupa in particolare dei genitori delle nostre pazienti: ci siamo messi in rete insieme ad altre onlus analoghe, presenti in tutta Italia, e abbiamo creato un network per dimostrare con i fatti che la ‘parentectomia’ è una stupidaggine: la famiglia è uno strumento terapeutico, se opportunamente guidato”.
Condivide la tendenza, denunciata dal Papa, dell’”autoesclusione” dei genitori dalla vita dei propri figli, affidandoli agli “esperti”?
“Non mi piace essere definito un esperto: l’esperto, generalmente, non ha nessuna esperienza sul campo, ha letto e ha scritto – forse troppi – libri senza assumersi la responsabilità per le foreste che sono state abbattute a causa sua… Il problema è cercare di alleviare il dolore delle persone, di vincere i sensi di colpa che hanno i genitori. Il perdono, come ha straordinariamente compreso questo Papa, diventa allora un tema fondamentale: bisogna imparare a perdonarsi e a perdonare gli altri. I genitori si devono perdonare, i figli li devono perdonare, e viceversa: il lavoro sul perdono non si trova in certi autori ‘à la page’, ci vuole un lavoro di squadra fatto da teologi, psicologi, psichiatri, antropologi… Nella vita, non è possibile essere sempre felici: la trappola della felicità, sempre e comunque, è una fesseria: esiste il dolore e il limite, non c’è essere umano sulla terra che sia esentato dal doverci fare i conti”.
M. Michela Nicolais