Quando bevevano vino, i Greci erano ben consapevoli che in quel succo delizioso c’era Dioniso in persona. Durante un simposio ma anche nel corso di una cerimonia particolare, il primo sorso era a lui dedicato. Figlio di Zeus e Semele, un olimpico di seconda generazione come Ermes e Apollo, dio della vite, del vino e del delirio mistico, Dioniso è quella divinità incontentabile e incontenibile, spirito divino in una realtà smisurata.
E questa “complessità dionisiaca”, così come la definisce la grecista Laura Pepe, si manifesta in tutta la sua apoteosi nelle Antesterie. Dal greco antico anthe (mese dei fiori), il periodo che segna il passaggio dall’inverno alla primavera, le Antesterie erano giorni di festa dedicati a Dioniso in onore del quale tutti i partecipanti indossavano ghirlande di fiori e corolle intrecciate. Un evento collettivo nella quale, al solito, Dioniso non assume soltanto i panni del dio del vino. Egli è anche divinità della natura, di una primavera che sboccia, ma al tempo stesso la divinità del ritorno in quei luoghi più oscuri che ha conosciuto durante le sue peregrinazioni, portando con sé le inquietudini provate.
Le Antesterie, esaltazione del culto di Dioniso
Senza adesso voler scendere nel particolare (i più interessati potranno leggere “Gli eroi bevono vino- Il mondo antico in un bicchiere” di Laura Pepe) ci basta aggiungere che il primo atto delle Antesterie consisteva nel rito chiamato pithòigia. Ad Atene i festanti in visibilio aprivano le botti di terracotta in cui era stata versata l’uva pigiata a fermentare subito dopo la vendemmia. E poi portate presso un santuario, ovviamente dedicato sempre a lui, “Dioniso alle Paludi”. Da queste botti si passava il vino nelle brocche, le choes, e dalle brocche, dulcis in fundo, nello stomaco.
I partecipanti in questi primi due giorni, praticamente, non hanno fatto altro che tracannarsi del succo delizioso dionisiaco. Grandi, anziani, persino bambini, al ritmo di una tromba che echeggiava tra città, contrade e vallate. Per il piacere di bere e per la convinzione di allontanare gli spiriti maligni fuoriusciti da sotto terra (il colore del vino è il colore del sangue). E per molto altro che non sapremo mai, probabilmente. Con la differenza che noi oggi beviamo “per dimenticare”, mentre i nostri amici ateniesi bevevano “per ricordare”.
Il culto di Dioniso in tutta la sua fisicità
E arriviamo così al momento clou in cui Dioniso si manifestava ai mortali in tutta la sua fisicità. Carichi del molto vino ingurgitato, ovvero ubriachi al tappeto (pare che una brocca contenesse due litri e mezzo di vino), i festanti uscivano di casa e ritornavano al santuario di Dioniso alle Paludi. Depositavano brocche e ghirlande e si preparavano a vivere uno dei momenti più esilaranti, a noi molto comune (scoprirete tra poco il perché).
Durante questi giorni, dunque, era lecito lasciarsi andare, liberarsi da obblighi e impegni, per dedicarsi allo scherzo e al gioco. Gironzolare per strada, fare baldoria, dare sfogo a impulsi sessuali. Ora, immaginiamo per un attimo le nostre città in questo periodo di Carnevale, addobbate da luminarie, le vetrine delle pasticcerie piene di dolci d’ogni sorta, i colori dei vestiti e le maschere dei bambini. C’è una similitudine con le Antesterie, almeno nelle forme.
E ciò è più evidente con l’episodio apicale di questa festa: l’arrivo del carro. Su di esso, a forma di nave dato il legame tra Dioniso e il mare, un tizio vestiva un mascherone personificando il dio del vino. Al suo seguito, un nutrito e vivace corteo di satiri, con destinazione la città di Atene. E la festa poteva così ricominciare, ancora più sfrenata, simposio di una celebrazione iniziatica.
Il culto di Dioniso antenato del nostro Carnevale
Le feste dionisiache del periodo classico greco e quelle Saturnali della Roma antica, sono considerate le antenate del nostro Carnevale (dal latino currus navalis). Tuttavia, occorre fare una precisazione. L’ebrezza del vino, l’allegria e le maschere, l’abbandono a momenti di spensieratezza, sono elementi in comune a entrambe le feste. Le somiglianze però si fermano qua. Perché la processione di Dioniso sul carro non era preludio di un periodo di digiuno e raccoglimento, così come accade invece nella nostra tradizione cristiana.
Il terzo e ultimo giorno delle Antesterie era in realtà sì un giorno decisamente più pacato e tranquillo rispetto ai precedenti, ma pur sempre inserito all’interno di un rituale ben organizzato.
Questo momento, solo apparentemente conclusivo, era chiamato giorno delle pentole (dal greco chytrai) perché proprio le pentole ne erano protagoniste sin dalle prime ore del mattino. Pensiamo a come dovevano essere affamati questi festanti dopo giorni trascorsi all’insegna del bere. Su queste pentole si cucinavano delle focacce, forse delle zuppe, mescolati al miele, cibo offerto, si crede, a Hermes, dio messaggero che faceva da tramite tra il mondo dei vini e l’aldilà. Anche se penso che i nostri amici festaioli ne abbiano mangiato in quantità minore rispetto al vino assunto, tuttavia questo cibo era destinato agli spiriti maligni, i kares, con l’invito ad andarsene via. Da qui la formula proverbiale “Alla porta, Kares, le Antesterie sono finite!”.
Nel culto di Dioniso ricordi ancestrali
Comunque stiano le cose, è chiaro che il terzo giorno segnava un graduale ritorno alla normalità. Anche se, immagino, ci siano voluti più giorni per riprendersi da quella sbornia memorabile! Non avremmo alcuna difficoltà a considerare tutto questo, oggi, quanto meno paradossale, vero? Cioè in fin dei conti questi matti greci offrivano vino e cibo agli spiriti mortali, questi ne traevano beneficio e ne diventavano ricchi, mentre gli altri si spennavano, dando praticamente l’anima.
Ma in questi riti si rammentavano ricordi ancestrali e si rievocavano i sentimenti contrastanti che la divinità suscitava. Il vino è gioia, è simbolo di vita comune e sociale, ma è anche pericolo perché dove c’è vino la follia è in agguato. Al di là dell’ironia che vi possiamo fare sopra, ho voluto raccontarvi di questo culto con la semplicità di un brindisi. Offrendo e rievocando parte di quella straordinaria cultura di cui siamo figli.
Domenico Strano