Vita cristiana / Sarebbe facile sbattere la porta in faccia, dice Papa Francesco, ma bisogna tenere aperto il dialogo

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Lo spot d’Avvento di una nota casa automobilistica tedesca ci martella con una sfida al parcheggio fra due papà-piloti, disposti a tutto pur di bruciarsi a vicenda nell’acquisto natalizio dell’ultimo minuto. Per “sentirsi buoni” s’incattiviscono in una prova di muscoli.
Papa Francesco ci ha regalato invece negli ultimi dieci giorni qualche stilla preziosa per nutrire una vita cristiana essenziale, controcorrente. Non muscolare, ma mite. Non buonista, ma evangelicamente buona.
Sull’aereo di ritorno dal Bangladesh, rispondendo ai giornalisti sul caso dei Rohingya, ha precisato che dobbiamo avere pazienza quando ci preme comunicare qualcosa, anche di urgente e di importante (com’era il suo richiamo alle autorità). Non lasciarsi prendere dal “piacere di sbattere la porta in faccia”, ma puntare “a tenere aperto il dialogo, a far parlare l’altro, a dire la mia e così il messaggio è arrivato”.
“Tante volte, le denunce, con qualche dose di aggressività chiudono il dialogo, chiudono la porta e il messaggio non arriva”, ha sottolineato Francesco che aveva attinto anche dalla vita quotidiana l’esempio di “un ragazzo, una ragazza che nella crisi dell’adolescenza può dire quello che pensa, sbattendo la porta in faccia all’altro e il messaggio non arriva, si chiude”. Invece, spiegava ancora, “per me, la cosa più importante è che il messaggio arrivi, e perciò cercare di dire le cose passo dopo passo e ascoltare le risposte, affinché arrivi il messaggio”.
Forse anche questo è essere “custodi di un Dio mite”, per richiamare il messaggio dell’arcivescovo Lauro in questa stagione pastorale. L’indicazione bergogliana del “passo dopo passo” che non “sbatte la porta in faccia” significa forse, a vari livelli, meno interventismo saccente e perentorio, lapidario. Invece più prese di posizione ponderate, giudizi precisi, ma non estemporanei, fuori luogo, dettati più dall’ascolto dei propri sentimenti che delle ragioni dell’altro.
La seconda stilla va ricavata da quel contagocce di spiritualità che è l’omelia mattutina in casa Santa Marta. Commentando lo stile di vita di Gesù il 5 dicembre il Papa ha precisato cosa intende per umiltà. “Qualcuno crede che essere umile è essere educato, cortese, chiudere gli occhi nella preghiera…”, avere una sorta di “faccia di immaginetta”. Invece “no, essere umile non è quello”.
La chiave interpretativa l’ha fornita lo stesso Francesco: “C’è un segno, un segnale, l’unico: accettare le umiliazioni. L’umiltà senza umiliazioni non è umiltà. Umile è quell’uomo, quella donna, che è capace di sopportare le umiliazioni come le ha sopportate Gesù, l’umiliato, il grande umiliato”.
Ecco cosa mette alla prova il cristiano: “Tante volte, quando noi siamo umiliati, ci sentiamo umiliati da qualcuno, subito viene di fare la risposta o di fare la difesa”. E invece? Invece occorre guardare a Gesù: «Gesù stava zitto nel momento dell’umiliazione più grande». E infatti, ha detto il Papa, “non c’è umiltà senza accettazione delle umiliazioni”. Quindi “umiltà non è soltanto essere quieto, tranquillo. No, no. Umiltà è accettare le umiliazioni quando vengono, come ha fatto Gesù”. Il cristiano è chiamato ad accettare “l’umiliazione della croce”, come Gesù che “è stato capace di custodire il germoglio, custodire la crescita, custodire lo Spirito”.
Terza goccia salutare, lunedì 11 dicembre, l’invito a non rimanere attaccati alle amarezze che ci teniamo dentro nel vortice del nostro stesso risentimento.
Con la sensibilità di un direttore spirituale molto navigato, Bergoglio osservava che spesso “noi nel negativo siamo padroni, perché abbiamo la ferita dentro, del negativo, del peccato; invece nel positivo siamo mendicanti e non ci piace mendicare, mendicare la consolazione”.
L’invito è stato diretto: imparare a lasciarsi consolare, prima ancora che a sentirci “buoni”, perché sappiamo consolare gli altri. Un rovesciamento di prospettiva che ben rientra fra i paradossi del “Dio capovolto”.

Diego Andreatta

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